In occasione della sua ultima personale Salomè a cura di Vito Chiaramonte, da Don Nino – Mind Food a Palermo, sono andata a trovare Alessandro Bazan, il pittore noto per essere stato capofila della cosiddetta Scuola di Palermo (di cui facevano parte, con Bazan, Fulvio Di Piazza, Andrea Di Marco e Francesco De Grandi, ndr). Ma soprattutto perché “Bazan è Bazan”, come dice Fulvio Di Piazza, che condivide con lui lo studio, un grande garage pieno di tele, colori e strumenti musicali. “Bazan non viene da nessuna parte, è una roba che si è creata magicamente in un dato momento della storia, nessuno sa perché si è creata, e fluisce in maniera straordinaria!”.
Sarà per il suo carattere pindarico, sarà per la dimensione immaginifica delle sue tele in cui si possono trovare tanti Fellini che volano tra i palazzi, sarà per le sue pennellate sintetiche o anche per la musica jazz, insomma sarà per quello che volete, ma Bazan è Bazan e poi il suo è un “pittare” colto di chi può permettersi d’improvvisare.
Mi fa sedere sulla poltrona più comoda del garage, poi si accende una sigaretta, si sente un sottofondo jazz, inizia la conversazione.
A quanto pare da ragazzo non ti piacevano i Duran Duran e quindi hai iniziato ad ascoltare il jazz, una musica che poi è diventata un’appartenenza e che continua ad influenzare la tua pittura.
“Da ragazzo la mia musica prevalente era atemporale, non so perché, ma mi dava molto di più la musica di Miles Davis e questa passione poi m’è rimasta. Oggi però, se li sento, mi piacciono i Duran Duran. In qualche modo sono sempre stato un non contemporaneo. Il mio tentativo è stato sempre quello di non essere contemporaneo, ma non ci sono riuscito, perché ovviamente è impossibile non essere contemporanei”.
Negli anni Novanta sei stato l’esponente capofila della cosiddetta Scuola di Palermo.
“È una questione di generazione, io sono il più vecchio. La cosiddetta Scuola di Palermo nasce spontaneamente, in realtà non c’era nessuna scuola, eravamo un gruppo di amici con Fulvio e Andrea abbiamo studiato all’Accademia di Urbino, anche se in tempi diversi, questo ha influito nel diventare amici successivamente e di fare molte mostre assieme. L’altra cosa che ci accomunava è che tutti noi avevamo scelto la pittura”.
Avevate scelto tutti la pittura: era una posizione un po’ in controtendenza in quegli anni…
“Era un po’ il segno dei tempi questa posizione. Scegliere la pittura, anche in quegli anni e soprattutto in Italia, era un po’ un procurarsi dei guai da soli, era un gesto quasi rivoluzionario”.
Ti viene dato il merito di avere riscoperto la pittura di Guttuso, ma quali sono i pittori che ami di più?
“Io amo molto i pittori che lavorano dal vero, non da fotografia”.
Tu invece come lavori?
“Io non lavoro da fotografia ma neanche dal vero, lavoro di fantasia. Quello che faccio è disegnare moltissimo, ma proprio tanto, faccio milioni di disegni di tutti i tipi, iperrealistici, fumettistici, anche di cose antiche, faccio studi continui anche su cose che non c’entrano niente con il mio lavoro. Mi esercito continuamente, come farebbe un giocatore di tennis prima di disputare un torneo.”
Il tuo lavoro ha un forte carattere pindarico, vi è una dimensione pop e fumettistica, ma soprattutto ironica.
“Sì, moltissimo, a proposito di Salomè un amico mi ha detto: non ti offendere, ma ho visto la tua ultima mostra e ho riso come un pazzo perché i tuoi quadri fanno quasi ridere”.
Salomè è il titolo della tua ultima personale (anche se di Salomè non c’è traccia in tutta la mostra), tuttavia si può ammirare una Giuditta contemporanea, totalmente fuori dagli schemi. L’erotismo ironico di quella tela è presente anche nell’opera Le ragazze verdi, cosa succede in quell’opera?
“Quand’ero ragazzino tentavo di intrufolarmi nelle riunioni tra fimmine, pensavo, che fanno le donne tra di loro, da sole? E loro, puntualmente, non mi facevano entrare. Allora ci riprovavo dicendogli, ma io, in qualità di maschio, vengo per sapere che cosa devo fare con le donne, ditemi che cosa devo fare?”.
Una delle opere più interessanti della mostra è Addaura 80, con due pennellate hai reso magistralmente due infradito scotte dal sole estivo.
“Questa cosa l’hanno notata anche altre persone. Non si può dire che le infradito siano un urgenza di dire qualcosa però, come vedi, funzionano”.
Le tue pennellate sintetiche, il tuo non avere un progetto vero e proprio, ma piuttosto un canovaccio, tutto questo ha a che fare con l’improvvisazione e con il jazz.
“Suonando il jazz ti rendi conto che quella musica lì, come la pittura, nasce dall’essersi approvvigionati di qualcosa, devi immagazzinare tantissime cose per poi tirarle fuori. Ai miei studenti dell’Accademia dico sempre: se leggi molto pitti meglio”.
Cosa significa “pittare” per te?
“Per me pittare è un mettere insieme dei vocaboli che uno conosce per dare una visione. Per come la vedo io, fare il pittore significa dipingere dei quadri, non avere delle idee. La pittura è un campo di scoperta, io sono il primo a voler vedere cosa succede. Il pittore per me è colui che, partendo da un punto, entra in uno spazio bidimensionale e lo indaga, non introspettivamente, ma in maniera pragmatica, tale da conferirgli una forma di visione. Anche l’astrazione può rientrare in questa cosa.”
Non pensi che la pittura possa contenere delle idee?
“Sulla questione che la pittura possa contenere delle idee ho molti dubbi. Non ho mai visto idee nella pittura, dal punto di vista concettuale intendo. Penso che la pittura non si possa progettare, le idee che ci sono non possono essere programmate. Al di là dei disegni preparatori, non è possibile raggiungere una totale chiarezza di ciò che si intende dipingere. Ma in effetti è sempre stato così, non è che ai tempi di Rembrandt la pittura fosse una cosa diversa”.
Cosa pensi del sistema dell’arte di oggi?
“Provo una sorta di fastidio per quello che oggi si intende per arte, per il semplice motivo che è molto trita, è sgamata e allo stesso tempo è ripiegata su sé stessa in maniera autoreferenziale, poi è scomparso completamente il fattore artigianale, elemento per me fondamentale. Oggi il politically correct ha portato a una forma di censura quasi totale. Ma l’arte è sempre stata politically uncorrect e non ha mai offeso nessuno. Oggi invece qualunque materiale può essere compromettente“.
Probabilmente è la società stessa che è diventata autoreferenziale. Viviamo una sorta di nevrosi collettiva in cui ci viene data l’illusione di scegliere e invece siamo continuamente condizionati, indotti, spiati.
“Veniamo agiti, siamo aspiranti schiavi robot, l’unica cosa che ci può salvare è la cultura. Ti faccio un esempio. L’umanità intera è vissuta sempre con una convinzione che oggi improvvisamente è diventata falsa. Prima si diceva: io credo solo a ciò che vedo; oggi è l’esatto contrario, dobbiamo diffidare soprattutto di quello che vediamo. Pensa a quanto è innaturale questa cosa”.
Questa questione dà una valenza nuova alla pittura, perché la pittura è vera, è fisica e viene fuori da un processo reale, secondo te cosa dovrebbe lasciare in chi la osserva?
“Per me è importante che l’opera lasci in chi guarda un margine di libertà. Ciò che è importante non è tanto dire o comunicare qualcosa, ma accendere l’immaginario. Una cosa troppo progettata, dove è tutto dato, non ti lascia spazio, puoi vedere solo ciò che è, fine. Una noia mortale. Se dovessi diventare qualcos’altro ai fini della carriera, allora smetterei di dipingere”.