Addio a Gianni Berengo Gardin: il testimone dell’Italia e del bianco e nero

L’Italia e il mondo della fotografia perdono una delle sue voci più autentiche e umane: Gianni Berengo Gardin è morto ieri 6 agosto 2025 a 94 anni nella sua città natale, Genova. Nato a Santa Margherita Ligure il 10 ottobre 1930, Gardin ha sempre affermato, con tipica modestia, di considerarsi un testimone della sua epoca, più che un artista. Per tutta la vita ha utilizzato la macchina fotografica con la sensibilità di un artigiano e l’anima di un cronista civile.

In oltre sessant’anni di carriera, ha realizzato più di due milioni di scatti, pubblicato oltre 260 libri fotografici, partecipato a oltre 360 mostre personali nel mondo e collaborato con testate prestigiose come Il Mondo, L’Espresso, Time, Stern e Le Figaro. Il suo bianco e nero — netto, evocativo, essenziale — è diventato un marchio stilistico e un manifesto etico: “Non sono un artista, ma un testimone” amava ripetere, sostenendo che la fotografia non doveva essere spettacolare, ma vera.

Fin dai primi scatti a Venezia, dove ha mosso i suoi passi giovanili, Berengo Gardin ha scelto di guardare verso l’oggi: le comunità, il lavoro, le periferie. E ha fatto della fotografia un atto civile. Il suo approccio umanista emerge con chiarezza nel capolavoro “Morire di classe” (1969), realizzato con Carla Cerati. Quel reportage penetrante sui manicomi italiani, commissionato da Franco Basaglia, documenta la violenza istituzionale con un rigore poetico e silenzioso: immagini che non scavano nel sensazionalismo, ma restituiscono la dignità delle persone. È uno dei contributi più potenti alla trasformazione del diritto alla salute mentale in Italia.

Gianni Berengo Gardin Bacino San Marco visto da via Garibaldi Venezia 2013 2015 ©Gianni Berengo Gardin Courtesy Fondazione Forma

La sua fotografia, tuttavia, non si è limitata al reportage sociale. Ha raccontato la Venezia meno nota: quella dei lavoratori, della nebbia, degli spazi quotidiani. Ha ritratto l’Italia del boom economico, le fabbriche, la modernità in trasformazione. Negli anni Sessanta e Settanta divenne fotografo ufficiale per Olivetti, immortalando lo sforzo industriale, l’architettura d’avanguardia, le persone in fabbrica. E ha continuato l’indagine sul territorio con sguardo sempre partecipe, come nei reportage sull’India rurale, sulle comunità rom, nelle fabbriche torinesi, nei cantieri di grandi architetti come Renzo Piano.

Un elemento imprescindibile della sua pratica è sempre stato il rifiuto delle manipolazioni digitali. Fedele alla pellicola, ostile al fotoritocco, Gardin pretendente una rappresentazione vera: “Pretendo di vedere quello che ha visto il fotografo”. Fino agli ultimi anni, ha fatto timbrare le proprie fotografie con la dicitura “Vera fotografia, non modificata”, convinto che la verità visiva fosse un dovere prima che un’estetica.

Gianni Berengo Gardin Funeral Boat Venice 1960

La critica lo ha spesso definito il “Cartier-Bresson italiano”, ma lui preferiva definirsi un erede di Willy Ronis. E conservava con orgoglio una dedica: “A Gianni Berengo Gardin con simpatia e ammirazione” firmata da Henri Cartier-Bresson in persona: “Se lo pensava lui, potevo morire in pace”, diceva.

La notorietà internazionale di Gardin è confermata da riconoscimenti prestigiosi: nel 1972 fu incluso tra i 32 fotografi più importanti del mondo da Modern Photography. Nel 2008 ricevette il Lucie Award alla carriera a New York. Conseguì una Laurea honoris causa in Storia della critica d’arte dall’Università Statale di Milano e fu insignito del Premio Kapuściński per il reportage. Nel 2017 entrò nella Leica Hall of Fame. Le sue fotografie sono oggi parte delle collezioni permanenti del MoMA di New York, della Maison Européenne de la Photographie di Parigi, del Guggenheim, del MAXXI di Roma, della Tate e di numerosi altri musei di alto profilo internazionale.

La notizia della sua scomparsa ha suscitato un’ondata di commozione: il Ministro della Cultura Alessandro Giuli lo ha definito «un autentico esploratore» capace di ritrarre “umanità e natura in ogni angolo del pianeta”. Anche la città di Venezia ha espresso il suo cordoglio come a uno dei pochi capaci di restituire l’anima della laguna in immagini silenziose ma potenti.

Gianni Berengo Gardin Istituto psichiatrico Parma 1968 ©Gianni Berengo Gardin Courtesy Fondazione Forma

In queste ore, sui media e sui social, impazzano i suoi scatti più memorabili, che parlano dell’Italia straordinariamente contemporanea: bambini che giocano al porto, passeggeri di treni, lavoratori ai cantieri, anziani nei borghi. È la memoria visiva di chi ha guardato l’oggi con delicatezza, rispetto e precisione.

Quando si pensa a un testimone della vita quotidiana italiana, della bellezza che si cela nel comune, nel fragile e nel trascurato, si pensa subito a Gianni Berengo Gardin. Non un monumento fragile, ma un faro costante che ha illuminato decenni di cambiamenti, silenzi, svolte storiche e paesaggi umani.

Con la sua morte, scompare un custode del reale e un maestro dell’inquadratura silenziosa. Le sue fotografie, come quaderni aperti su vite e territori, continuano a raccontare non perché ricordano, ma perché guardano con sguardo umano.

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