Addio a Mimmo Jodice, maestro che fece della fotografia un atto metafisico

Napoli, rione Sanità, 1934. In una casa stretta tra voci, mercato e umidità, nasce Mimmo Jodice. Un bambino curioso, silenzioso, con uno sguardo che già allora si fermava più del necessario sulle cose. Il padre muore presto, e il mondo diventa presto duro. Mimmo abbandona la scuola, lavora, ma non smette di guardare. Non sa ancora che quello sguardo diventerà il suo mestiere, la sua condanna e la sua salvezza.

Negli anni Cinquanta Napoli è un miscuglio di sacro e miseria, una città che odora di mare e ferro. Jodice si avvicina alla fotografia quasi per caso, come chi trova un linguaggio che già conosceva senza saperlo. Compra la prima macchina fotografica, studia da solo, sperimenta. Ma non gli interessa “scattare”: gli interessa vedere. Capisce subito che la fotografia non serve a fermare il tempo, ma a misurarlo.

Negli anni Sessanta, quando il mondo artistico napoletano si apre alle avanguardie, Jodice trova la sua tribù. Frequenta Lucio Amelio, incontra Andy Warhol, Joseph Beuys, Jannis Kounellis, Michelangelo Pistoletto. Tutti passano da Napoli, e lui li osserva, li fotografa, ma non come un cronista. Le sue immagini degli artisti non sono ritratti: sono dialoghi silenziosi. In quegli anni la fotografia italiana è ancora considerata ancella delle arti maggiori. Jodice la emancipa. La porta dentro l’arte.

Negli anni Settanta, diventa professore all’Accademia di Belle Arti di Napoli e fonda il primo corso di fotografia in Italia. Insegna con severità e dolcezza, più come un monaco che come un docente. «Non basta guardare», ripete ai suoi studenti. «Bisogna aspettare che la realtà si lasci guardare». È in questo decennio che il suo linguaggio si definisce. Serie come “Nudi dentro cartelle ermetiche” e “Vedute di Napoli” mostrano una fotografia rarefatta, scarnificata. Nei suoi scatti non c’è movimento, non c’è colore: c’è l’attesa. Ogni immagine è un esercizio spirituale.

Mimmo Jodice Napoli La Città invisibile Castel SantElmo 1990 Stampa su carta baritata al bromuro ai sali dargento realizzata a mano dallartista VINTAGE Napoli Mimmo Jodice Studio

Poi arriva “Napoli: un’archeologia del futuro”, la serie che lo consacra. Le statue, i templi, i cortili, le strade vuote diventano una mappa del tempo. Napoli non è più una città, ma un organismo antico, sospeso tra passato e sogno. Il suo bianco e nero è chirurgico, la luce è lama e carezza insieme. Jodice costruisce immagini che non appartengono a un’epoca ma a un luogo mentale. Il critico Ferdinando Scianna parlerà di lui come del “fotografo della sospensione”.

Negli anni Ottanta e Novanta Jodice diventa un riferimento internazionale. Espone al Philadelphia Museum of Art, alla Maison Européenne de la Photographie di Parigi, alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. I musei lo accolgono come un classico vivente. Ma lui resta fedele alla sua Napoli, che continua a fotografare da angolature impossibili: muri scrostati, statue mutilate, finestre cieche. Dice: «Io fotografo ciò che è rimasto. Non ciò che c’è». Il suo nome inizia a essere accostato alla parola “metafisica”. I critici lo definiscono “narratore dell’anima attraverso la luce”, altri parlano di “metafisica del tempo sospeso”. Eppure, Jodice non ama le definizioni. Per lui la fotografia resta un mistero: qualcosa che accade tra l’occhio e il silenzio.

Intanto, la vita continua. Si sposa, diventano grandi i figli. Francesco Jodice, nato nel 1967, cresce in un ambiente impregnato di visione e rigore. Da adulto seguirà una sua strada, quella dell’arte contemporanea. Con progetti come What We Want e Citytellers, porterà la lezione paterna nel linguaggio della geografia urbana e politica. «Da mio padre — dirà — ho imparato la lentezza».
Il fratello Gianluca, invece, sceglie il cinema. I suoi film, come Il cattivo poeta, hanno la stessa compostezza, la stessa cura per la luce. È come se la fotografia di Mimmo avesse trovato nei figli due nuove direzioni: una verso l’analisi del mondo, l’altra verso la narrazione.

Negli anni Duemila, mentre il mondo corre verso il digitale, Jodice resta fedele alla pellicola, alla camera oscura, alla lentezza. Nel 2003 riceve il Premio Antonio Feltrinelli dell’Accademia dei Lincei e, nel 2006, una laurea honoris causa dall’Università Federico II. I riconoscimenti lo raggiungono tardi, ma lui non sembra curarsene. Continua a stampare da solo, a parlare poco, a riflettere molto.

Negli ultimi anni, quando molti colleghi si erano ritirati, Jodice torna con tre mostre che riassumono tutta la sua vita. La prima è “Oasi”, al Camera di Torino e poi alla Fondazione Zegna. Sono fotografie realizzate nel 2008 tra i paesaggi innevati dell’Oasi Zegna, mai esposte prima. Fabbriche, alberi, neve, silenzio. Non c’è Napoli, non c’è mare. Eppure, c’è tutto di Jodice. Le superfici fredde diventano pensiero. La nebbia è un’altra forma del tempo. Un critico scrive: “È la sua metafisica del Nord”.

Mimmo Jodice Marina di Licola Opera IV 2008 Stampa su carta baritata al bromuro ai sali dargento realizzata a mano dallartista VINTAGE Napoli Mimmo Jodice Studio

Poi arriva “Napoli metafisica – tra ombre e apparizioni” al Castel Nuovo. È il ritorno a casa. Le sue fotografie dialogano con i dipinti di Giorgio de Chirico: archi, colonne, statue. La città diventa sogno. Le sale del castello si riempiono di un silenzio denso, quasi religioso. È la Napoli che ha sempre voluto mostrare: non quella dei mercati o dei vicoli, ma quella che vive tra le ombre, nei suoi vuoti. In un’intervista dice: «Napoli non è la mia città. È la mia memoria».

Marina di Licola Opera n3 2008 di Mimmo Jodice

Infine, nell’aprile 2025, al Castello di Udine, inaugura “L’enigma della luce”. È la sua ultima grande retrospettiva: 140 fotografie dal 1964 al 2015. Tutta la sua vita, tutta la sua poetica, tutta la sua visione. Il titolo è perfetto, quasi un epitaffio. Perché la luce, per Jodice, è sempre stata un enigma. Non qualcosa da risolvere, ma da contemplare. Le fotografie sono ordinate non per anni, ma per temi: corpi, città, mare, pietra. Camminando tra le sale si ha la sensazione di attraversare un sogno lucido, dove ogni immagine è un frammento di tempo solidificato.

E poi, come nei suoi scatti, arriva il silenzio. Ieri 28 ottobre 2025 Mimmo Jodice muore. I giornali lo salutano con le parole che avrebbe odiato: “leggenda”, “mito”, “maestro”. Ma forse questa volta non sono retorica. I critici lo chiamano “il fotografo della sospensione”, “l’artista della luce pensata”. Oggi, quando si guarda una sua fotografia — una statua, una finestra, una strada vuota — non si vede Napoli, né il Mediterraneo. Si vede il tempo stesso: quel momento in cui la realtà smette di accadere e comincia a ricordarsi.

E forse è questo che Jodice ha insegnato ai suoi figli, agli allievi, a chiunque abbia mai preso in mano una macchina fotografica: che l’immagine non serve a fermare il mondo, ma a sentirlo respirare.

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