Amy Sherald al Whitney, l’identità afroamericana oltre il dibattito sulla woke culture

Se c’è un’artista che possa rappresentare tematiche personali e politiche e che mira a ridefinire, attraverso il ritratto, percezioni legate alla comunità e a temi razziali, questa  è Amy Sherald. E l’occasione per riflettere su di lei la offre il Whitney Museum di New York che ospita una sua retrospettiva composta da quarantadue opere (visibile fino al 10 agosto) dal titolo “American Sublime”. 

La tentazione di interpretare il suo lavoro attraverso una lente politica è forte, e anche quella di accostarla al movimento Woke. Ma il dibattito invece è molto più complesso. Qui si cerca di fare un passo oltre la consapevolezza delle ingiustizie sociali, anche perché il linguaggio artistico non dovrebbe essere solo uno specchio della realtà o un megafono dove propagandare idee politiche. Si pone invece con Sherald il problema di come rappresentare l’identità afroamericana andando oltre i soliti cliché antirazzisti. Non si può dire che il politically correct sia stato superato o sia in corso un’evoluzione etica ed estetica operata da chi ha il compito, attraverso la programmazione museale, di proporre tematiche che facciano riflettere sul presente. In questo senso è molto difficile che le scelte culturali non siano anche scelte ideologiche, di qualunque parte politica si tratti, perciò scelte culturali democratiche  che superino il gap ideologico e che non siano divisive, sarebbero auspicabili. Ma tant’è che da anni, non si vede l’ombra di cambiamento in tal senso.

Detto questo, l’immagine scelta per pubblicizzare la mostra è il ritratto di Michelle Obama e non poteva essere altrimenti, perché il destino di Amy Sherald è stato quello di essere conosciuta per un solo dipinto, per l’appunto il ritratto di Michelle Obama, commissionato nel 2018 dalla National Portrait Gallery che le ha portato una notorietà e una fama improvvisa. Il dipinto è un’anomalia, perché l’artista è piuttosto una pittrice che ritrae persone sconosciute e che ha comunque riscritto la ritrattistica americana, conferendo riconoscimento e carisma all’individuo.

Ma la cosa più sconcertante è che sia stato scelto un titolo American Sublime, che non ci azzecca. Ovvero tutto è Sherald  fuorché sublime, perché come accennavo prima, il dramma, il pathos non c’è. Non c’è materia, corpo, emozione che trasudi dal corpo. È rimasto invece l’involucro. Forse per proteggersi e alleggerire tematiche che hanno anche affollato il passato e si cerca ora fresca, nitida e pulita, per resettare memorie.

Amy Sherald All things bright and beautiful 2016 oil on canvas collection of FRances and Burton Collection

“American Sublime”, il titolo qui appare provocatorio, quasi a voler insistere che Il sublime si trova  nell’ordinario. E ciò apre quindi a varie interpretazioni. Il concetto del sublime, nel romanticismo, era un misto di terrore e attrazione, un‘esperienza di intensa meraviglia, qui si esprime attraverso il suo esatto contrario. Tutto è iniziato quando Sherald, da studentessa, vide un dipinto di grandi dimensioni al Columbus Museum che raffigurava un uomo di colore in piedi fiero davanti a una piccola casa di mattoni; era stato dipinto da Bo Bartlett, un noto realista, che è bianco. Sherald, che non aveva mai visto prima un dipinto di una persona di colore, ha descritto quel momento come un’esperienza che le ha cambiato la vita, aprendole gli occhi su come desiderava trascorrere il suo futuro.

Amy Sherald <em>Michelle LaVaughn Robinson Obama</em> 2018

Sherald deve qualcosa anche a Horace Pippin, il pioniere dell’arte di colore dei primi del XX secolo. Nel suo “Autoritratto” (1941) esposto al Buffalo AKG Art Museum, ha raffigurato il suo volto come una maschera grigia monotona. Allo stesso modo, Sherald raffigura le tonalità della pelle dei suoi personaggi in un grigio neutro piuttosto che in marroni naturali. I suoi dipinti sono esenti da sentimentalismo e invece abbondano di un infallibile senso del disegno e da un gusto per superfici essenziali, semplificate e super piatte. È bene specificare che tutto parte dalla fotografia e che il set fotografico è il luogo dove Sherald costruisce situazioni, personaggi, pose. Il tutto è poi trasferito sulla tela, dove con un lavoro minuzioso e preciso sono dipinti dettagli in modo iperrealistico. È un iperrealismo però del tutto particolare perché dai ritratti di Sherald non traspaiono emozioni, ma il godimento della pittura in sé, come se avesse messo un filtro che vede i personaggi recitare le parti di un breve copione, attori che calcano la scena di un teatro illusorio dove il dramma, la vita sembrano siano agiti altrove.

Amy Sherald <em>The Girl <em>Miss Everything Unsuppressed Deliverance</em> 2014</em>

Uscendo dall’ascensore al quinto piano del museo, ci si ritrova davanti a una parete curva, con cinque ritratti a grandezza naturale, ognuno in un diverso colore sgargiante. The Girl Next Door (2019), mostra una giovane donna con un abito bianco a pois, stagliata su uno sfondo verde smeraldo. Il suo abito immacolato, il suo rossetto rosso, i capelli acconciati con una graziosa riga laterale sono tutti attenti tentativi di autopresentazione che la dicono lunga sulla fanciullezza americana.

I ritratti verticali di Sherald, al contrario, mantengono il loro carisma pittorico nonostante una certa ripetitività. Quasi tutti i ritratti in mostra, che risalgono al 2008, hanno esattamente le stesse dimensioni (cm 137×109). Le figure nei suoi dipinti, che siano uomini, donne o bambini, tendono ad avere la stessa espressione imperscrutabile e impassibile. Ti guardano senza impegno, come se ascoltassero in silenzio mentre racconti loro una storia alla quale non sono interessati. E di questi tempi, dove tutti invece vogliono essere visti, o meglio “sentirsi visti”, chi rimarrà a guardarci? Chi sarà curioso di noi, o solleverà lo sguardo dallo schermo di uno smartphone per vedere chi siamo? I suoi dipinti sono un invito a quest’azione, alzare gli occhi e osservare chi è l’altro.

Amy Sherald For love and for Country 2022 oil on linen SFO Museum of Modern Art HEIC

Le immagini sono perfette, non esistono pennellate enfatiche, perché i corpi qui sono evaporati, esistono invece solo gli involucri, i vestiti immacolati, un mondo fanciullesco ma anche un po’ replicato, a tratti insipido. I colori, i vestiti, le pose, le figure e gli oggetti: come figurine di un album, o come pasticcini colorati cambiano aspetto, ma il sapore è sempre lo stesso. Per evitare che il soggetto si scopra fino in fondo e riveli la sua vera identità, Sherald cambia il colore della pelle ai personaggi, non più marrone ma grigia. Perché, in fondo, il colore della pelle è un pattern come un altro, non è più il simbolo di un’identità. È una realtà illusoria. L’arte serve anche per rieducare la percezione, e sviluppare un pensiero nuovo che incontri ed esprima, il fattore umano. E Il fattore umano non può non farci venire in mente il dramma che per Amy è stato senz’altro dover affrontare il suo problema di salute. Stava appena terminando la laurea quando le è stata diagnosticata una cardiomiopatia idiopatica, una grave patologia cardiaca. Un giorno del 2012 è svenuta in una farmacia Rite Aid e si è risvegliata in una pozza di sangue. È stata portata d’urgenza al Johns Hopkins Hospital, dove ha atteso due mesi per il cuore di un donatore e poi è stata sottoposta a un intervento chirurgico per un trapianto di cuore. E l’artista, nonostante queste estreme condizioni, ha sempre dipinto dimostrando una forza incredibile e miracolosa.

Amy Sherald <em>Listen you a wonder You a city of a woman You got a geography of your own</em> 2016

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