Eccoci qui con una nuova puntata della serie dedicata al Şanlıurfa Neolithic Research Project, il progetto di ricerca internazionale, coordinato dal Ministero della cultura e del turismo turco, che nell’Anatolia sud-orientale si sta occupando di riportare alla luce Göbekli Tepe e le sue sorelle e di riscrivere le nostre conoscenze in merito ai processi di sedentarizzazione dell’uomo.
Il riassunto delle puntate precedenti è piuttosto semplice: la scoperta, nel 1995, del grandioso sito di Göbekli Tepe, con i suoi circoli megalitici di pilastri a T e le sue enigmatiche statue zoomorfe e antropomorfe, databili al Neolitico preceramico, ha indotto gli studiosi a capovolgere i paradigmi interpretativi precedentemente elaborati in merito ai processi che portarono l’uomo a sedentarizzarsi, postulando un primo momento in cui alle necessità più pratiche della vita sedentaria – avere un tetto sopra la testa e una produzione costante di cibo – si siano anteposte necessità diverse, legate maggiormente alla sfera rituale e sociale.
Col tempo, quello che si credeva essere un sito straordinariamente unico si è rivelato far parte di una più complessa rete di siti, tutti più o meno contemporanei, e gravitanti nell’area dell’attuale città di Şanlıurfa, alcuni dei quali con caratteristiche simili a Göbekli Tepe. Man mano che le ricerche sono proseguite, il quadro offerto da questi siti si è enormemente arricchito e complicato: sono tornate alla luce chiare evidenze di attività connesse alla quotidiana sussistenza (come quelle offerte da Mendik Tepe, ne parlo qui), quantomeno contemporanee alle attività socio-rituali testimoniate a Gobekli Tepe.

Ora questo quadro così affascinante si impreziosisce di un nuovo, emozionante capitolo, perché – per la prima volta – in uno dei siti di Taş Tepeler, sono emerse evidenze inconfutabili di edifici con funzione abitativa. A Karahan Tepe, probabilmente il sito più famoso assieme a Gobekli Tepe, gli scavi del professor Necmi Karul dell’Università di Istanbul hanno riportato alla luce le tracce di oltre 30 abitazioni, parzialmente o interamente scavate nella roccia, a formare un complesso agglomerato interconnesso, che – a tutti gli effetti – sembra costituire una prova di insediamento coeso, condiviso e cooperante.
Le strutture spaziano dai 3 ai 6 metri di diametro e sono disposte secondo un modello agglutinante, simile a un alveare, che in tal senso non può non riportare alla mente modelli ben più conosciuti di primigeni insediamenti, primo fra tutti Çatalhöyük, che però è più recente di almeno 2000 anni. I muri sono irregolari e di forma ovale, forma che meglio si sposa con un primo tentativo di confronto con lo spazio architettonico. All’interno, gli archeologi hanno rinvenuto resti di pavimentazione in pietra, focolari, piccole nicchie scavate nella roccia probabilmente usate come aree di stoccaggio per strumenti o derrate alimentari, e piattaforme per la macinazione, il tutto straordinariamente conservato al di sotto di strati di riempimento intenzionale, destino che accomuna molti dei siti di Taş Tepeler prima del definitivo abbandono. Dunque, strutture pensate per avere una durata nel tempo e per permettere lo svolgimento di attività ben precise, legate al food processing e all’immagazzinamento di oggetti e derrate.
Tuttavia, la cosa ancor più interessante riguarda lo stretto rapporto che l’insediamento sembra avere con le strutture rituali monumentali, circoli di pilastri a T molto simili, sebbene più piccoli, a quelli di Gobekli Tepe. All’interno di alcune abitazioni – infatti – trovavano posto pietre erette e pilastri identici a quelli che caratterizzano i circoli megalitici, che al momento dell’abbandono della casa (evento che abbiamo visto essere marcato da un interramento volontario della struttura) vengono deliberatamente abbattuti, a testimonianza non solo di una tangibile connessione tra vita domestica quotidiana e dimensione spirituale, ma anche del valore rituale e simbolico che potrebbe aver avuto l’abbandono dell’abitazione. Dunque, sembrerebbe a tutti gli effetti che queste prime comunità di uomini sedentari non concepissero l’architettura domestica e quella rituale come due momenti o due fenomeni distinti, ma come elementi integranti e comunicanti tra loro.
Agli studi stratigrafici e architettonici, il team di ricerca turco sta affiancando complesse analisi legate alle tracce microscopiche lasciate sui pavimenti e sugli strumenti. Campioni di suolo prelevati dall’interno delle case vengono analizzati mediante flottazione, al fine di separare dal terreno, per mezzo dell’acqua, le minuscole particelle vegetali invisibili a occhio nudo e individuare – così – residui di piante e resti alimentari. I risultati finora raggiunti indicano la lavorazione di cereali e legumi selvatici, che potrebbero rappresentare un passaggio fondamentale nello sviluppo delle prime tecniche di domesticazione delle piante. In tal senso, le pietre impiegate per la macinazione rinvenute all’interno delle abitazioni sono particolarmente cruciali, poiché potrebbero conservare quelle tracce in grado – oltre ogni ragionevole dubbio – di individuare quali piante e quali prodotti venivano lavorati e consumati.
Insomma, le scoperte di Karahan Tepe stanno nuovamente ridefinendo la nostra comprensione di come, 11.000 anni fa, gli esseri umani vivevano; il sito si sta rivelando non solo un luogo rituale del Neolitico, ma anche e soprattutto un vero e proprio insediamento stanziale, che mette in luce le radici domestiche della civiltà, e il tentativo degli esseri umani di creare nuclei stabili e spazi definiti di abitazione che vadano oltre il rituale collettivo.
In tal senso, le parole di Nemci Karul mi sembrano il modo migliore di concludere: “Studiando queste abitazioni, stiamo studiando l’inizio stesso della società umana, il momento in cui le persone hanno iniziato a vivere insieme in modo permanente”.


