«Se una donna nonostante tutto vuole entrare nell’Olimpo del potere culturale, lo faccia ma che entri dalla porta principale e non attraverso lo spiraglio aperto dai nuovi ghetti delle mostre per signore. Noi femministe non vogliamo bussare alle porte del potere, noi vogliamo cambiare questo sistema», diceva Cloti Ricciardi (1975).
Alla sezione della mostra Felice ironia dedicata all’arte femminista non si entra dalla porta principale del museo. Ad essa è dedicato uno spazio ben preciso, due stanze fuori dal percorso principale: è separatismo consapevole e politico o ancora si cade nello stereotipo dell’arte femminista come semplice alternativa a quella maschile? È uno spazio separatista o solo separato?
Se il separatismo ha avuto senso nella storia dei femminismi bianchi italiani degli anni Settanta, è da valutarne il significato contemporaneo in una cornice artistica come quella della mostra Facile ironia del MAMbo.
I femminismi degli anni Settanta sono un fenomeno molto complesso, e non si lasciano definire univocamente così come l’arte che non è un’espressione universale, ma messa in atto di una cultura opprimente, fatta dagli uomini per gli uomini, come parte integrante di un sistema che prevede ruoli e gerarchie. L’“arte femminile” in questo contesto rischia di rientrare, subalterna, nella routine della cultura dominante tutta al maschile, diceva Anne-Marie Sauzeau Boetti (1979).
Di fatto le artiste degli anni Settanta e coloro che si ora si occupano dei relativi femminismi non possono prescindere dalle istanze femministe. In questa cornice si inserisce l’arte femminista – la cui definizione non può essere precisamente delineata – come riconquista della capacità creativa nella lotta per la liberazione. La pratica artistica di un femminismo bianco determinerà la nascita di una cultura altra, che cerca di liberarsi dal potere, dalle gerarchie e dall’oppressione.
In Vivere una vita femminista, Sara Ahmed afferma che «ridere di qualcosa può essere un modo per renderlo più reale, farlo emergere e, contemporaneamente, ridurre il potere o la presa che quella cosa ha su di te». La risata e l’umorismo diventano nella lotta femminista una forma espressiva critica attraverso cui prendere di mira il patriarcato e i suoi valori fallocentrici. L’ironia, tema centrale della mostra bolognese, è sfruttata dalle artiste per demistificare pregiudizi e cliché culturali perpetuati nei confronti delle donne e la configurano come atto di insubordinazione per decostruire e risemantizzare le soggettività autodeterminate. L’arte diventa uno spazio politico in cui rivendicare la propria identità e il proprio corpo.
Spazio che, al MAMbo, si apre e si dispiega attraverso la carta da parati azzurra e rosa di Tommaso Binga – alter ego di Bianca Pucciarelli Menna – il cui obiettivo è quello di una totale mimesi con l’ambiente domestico, come denuncia della condizione femminile ancora relegata al lavoro di cura non retribuito. La bicromia ironizza le classiche associazioni binarie e di genere legate ai colori.

Gli Imbambolati
2018
Ceramica Ceramic
20 x 13 cm diametro|diameter altezza
variabile var
iable height
Collezione privata Private collection
A partire dalla rielaborazione di immaginari collettivi e simboli della storia dell’arte maschile, Benni Bosetto sviluppa una riflessione di ribaltamento delle iconografie tradizionali. Ne è un esempio Gli Imbambolati (2018), opera che consiste in un uovo di struzzo ispirato alla Pala di Brera ma con l’aggiunta di un ano: un’operazione di abbassamento iconografico, quasi da arte povera, che porta il sacro al terreno.
Mirella Bentivoglio gioca con ambiguità semantiche e linguaggio, come nella serigrafia del 1975, dove la C di Coca-Cola forma un cuore con la parola oca all’interno: un gioco visivo ironico, ma carico di senso critico.

Passiamo dal 1975 al 2018 con Same old shit di Monica Bonvicini, opera in cui la superficie riflettente rimanda lo sguardo a chi guarda, mettendo in discussione lo spettatore stesso. Diverse modalità di utilizzare il linguaggio e varie posizioni che dimostrano come non tutta l’arte prodotta da donne possa essere automaticamente definita femminista.
Diverso è il caso del Gruppo XX, il cui nome allude ai cromosomi femminili, che con una dichiarazione esplicita e ironica denuncia le oppressioni sistemiche. Il loro manifesto recita: «La donna ha la testa troppo piccola per l’intelletto, ma sufficiente per l’amore», ironizzando sulla frenologia, pseudoscienza tutta al maschile.

Esclusa dallo spazio separato del MAMbo è Lina Mangiacapre, la cui pratica artistica è apertamente politica e di contestazione radicale. Nonostante la diffidenza di molte femministe, le rassegne al femminile hanno rappresentato un passaggio obbligato, portando la presenza artistica femminile come nuovo soggetto politico. Il rifiuto misogino del sistema da una parte, e il mancato dialogo del femminismo con le istituzioni, hanno concretizzato il paradigma lonziano di inconciliabilità tra arte e femminismo (Seravalli 2013).
Inoltre, non tutte le opere nello spazio museale possono essere definite femministe. Rimane dunque la domanda iniziale: è arte femminista o solo arte prodotta da donne? Sottoscrivere le artiste sotto un unico ombrello sarebbe un errore politico. È necessaria cautela nel definire “femminile” ciò che si presume femminista, anche quando l’artista ha frequentato il movimento.
L’idea che leghi tutte le donne in un’unica entità è una costante di un sistema che non è ancora pronto per accogliere codici femministi. Ma le femministe non chiedono integrazione: non si può distruggere il padrone con gli strumenti del padrone.
Detto ciò, è necessario riconoscere che i femminismi degli anni Settanta influenzarono l’arte come clima e metodo, ma non come unica categoria o stile definibile.
Rimane infine da interrogarsi sul senso di uno spazio separato che relega ancora una volta le donne come alterità.
Aveva ragione Carla Lonzi?
Arte e femminismo sono espressioni di una bipolarità inconciliabile?
È davvero impossibile fare le due cose insieme? (Seravalli 2013).