Recensire una fiera non è mai facile. Non è una mostra, non ha, sebbene a volte finga di averla, un fil rouge o un tema che tenga insieme gli artisti e le opere. È piuttosto un organismo vivo, pulsante, dove tutto si muove in funzione del mercato, motore imprescindibile di ogni arte: senza mercato non c’è linfa per gli artisti, non c’è interesse diffuso, non c’è pubblico — e senza pubblico, non c’è arte.
Recensire una fiera, dunque, per noi, equivale a compiere quella sorta di percorso che, alla fine dell’Ottocento, i migliori scrittori dell’epoca intraprendevano visitando i Salon parigini: non cercavano di giudicare, ma di sentire. Come scriveva Émile Zola, nel suo Adieux d’un critique d’art: “J’ai cherché des hommes dans la foule de ces eunuques” (“Ho cercato degli uomini nella folla di questi eunuchi”). Battute un po’ troppo machiste a parte, che, nella scelta delle parole, non ci rappresentano affatto (noi cerchiamo semmai le persone, uomini, donne o gender fluid che siano o si sentano), ma che rendono ancora bene la difficoltà di cogliere, tra le tante opere, quelle che “vibrino” al nostro sentire e ci diano una scossa di vitalità, se non sempre propriamente di novità, il senso di quella frase resta attualissimo: anche noi, oggi, vagando tra gli stand di Artissima, cerchiamo infatti, come voleva Zola, “prima di tutto l’uomo [la persona], oltre che il quadro” – cioè la qualità umana delle opere, quella vibrazione che le rende vive e parlano al nostro animo. Visitare una fiera, oggi più che mai, significa dunque per noi assumere lo sguardo di quei critici ottocenteschi: non solo camminare tra i padiglioni, ma cercare — come avrebbe detto Baudelaire — l’immaginazione che ridefinisce il tutto, quella che trasforma la moltitudine dei segni e dei colori in visione intima e personale.
Così, per raccontare Artissima 2025, non ci limiteremo al (francamente stantio) elenco dei “più begli stand” della fiera, ma proveremo, come sempre, a individuare i fili rossi invisibili che uniscono tra loro le opere, le idee, le intuizioni, le personalità degli artisti più interessanti: le voci più vive dentro il grande labirinto della fiera. Un labirinto a cui – casualmente coincidente con il cinquantesimo anniversario della tragica morte di Pier Paolo Pasolini – vogliamo dedicare un titolo che più pasoliniano non si potrebbe: una disperata vitalità, titolo di una sua celebre poesia, perché anche noi, noi, visitando la fiera e noi tutti, artisti, collezionisti, curatori, curiosi, appassionati, noi tutti siamo, infine, siamo, questo folle mondo in velocissimo e inesorabile cambiamento, in questo mondo dove “il neo capitalismo ha vinto” (ormai definitivamente, inesorabilmente), “come un gatto bruciato vivo,/pestato dal copertone di un autotreno,/impiccato da ragazzi a un fico,/ma ancora almeno con sei/delle sue sette vite“: malgrado tutto, malgrado la crisi, i cambiamenti, i dubbi, i repêchage, i ritorni, gli sberleffi, le banane, l’IA, i giochetti furbi e quant’altro, noi continuiamo a vivere, a creare, ad amare, a riempire stand di fiere e spazi di mostre di opere. Eccole, allora, le opere di cui ci sembra valga la pena di parlare, di scrivere, e magari anche di acquistare.
La pittura tra intimità, tensione ed eros
Chi ci conosce, sa già da dove partiremo. Sì, certo, dalla pittura, la nostra “prima musa”, la pittura, presente in questa, come nelle ultime edizioni di Artissima, in maniera massiccia, con tante, tantissime opere, di ottimo livello, di artisti provenienti da ogni parte del mondo, caratteristica precipua di una fiera che vanta da sempre la palma dell’internazionalità tra le fiere italiane. Ma, nella pittura, e non solo in quella, abbiamo cercato e trovato quello che ci sembra uno dei fil rouges di questa nostra combattuta, bistrattata, complicatissima contemporaneità: un tema che ci sembra sia una delle costanti dell’arte di questo ormai non più troppo nuovo millennio: il tema dell’intimità, della irrisolvibile solitudine e sottile malinconia che attraversa buona parte della miglior produzione artistica contemporeanea, a dispetto della fatua attenzione ai dettagli della cronaca o del politicamente corretto in auge ai livelli più ovvi e pacchiani del contemporaneo, e anche una buona dose di sessualità che scalpita per emergere, per far sentire la sua voce e il suo timbro.

Ecco, tra i pittori che ci parlano di sessualità, solitudine e intimità, spiccano i bellissimi quadri del portoghese João Gabriel (classe 1992), esposti nel raffinato stand della Galleria Lehmann di Porto: un ciclo in cui l’artista preleva e riscrive pittoricamente fotogrammi tratti da pellicole pornografiche underground degli anni Settanta, trasformando quella materia visiva, ruvida e clandestina, in una pittura vibrante e struggente. Con pennellate rapide e luminose, Gabriel dissolve l’erotismo esplicito in un linguaggio sospeso tra desiderio e perdita, tra la vitalità dei corpi e la loro inevitabile scomparsa: figure sfocate, immerse in una luce tremula, che sembrano emergere dall’oblio solo per un istante, come ricordi di un’intimità già trascorsa. Nei suoi dipinti la sensualità si confonde con la malinconia, e dietro ogni gesto amoroso si avverte una dolce disperazione, il rimpianto di qualcosa che non può più tornare.

Nello stand della galleria Alice Amati, il rumeno Paul Robas (classe 1989), oggi di base a Vienna, presenta una serie di nuovi dipinti atmosferici in cui il ritratto si muove tra l’intimo e l’elusivo. Le figure emergono da spazi indefiniti, come ricordi che si formano e si dissolvono, sospese tra apparizione e sparizione. Partendo da fotografie trovate o manipolate digitalmente, Robas le traduce in pittura attraverso una superficie che si sfoca, si stratifica, si cancella, trasformando l’immagine in un campo di memoria instabile. Nei suoi lavori, la pittura diventa una metafora della mente, luogo in cui le immagini vengono continuamente riscritte dal tempo, dal desiderio e dalla perdita. Di recente, l’artista ha iniziato a sperimentare con immagini generate dall’intelligenza artificiale, affascinato dalla possibilità che nuove tecnologie e mezzi tradizionali possano fondersi senza attrito. “Trovo affascinante il modo in cui le nuove tecnologie e i mezzi tradizionali possano fondersi senza attrito, come se l’uno potesse infiltrarsi nell’altro. Questo processo solleva spesso una domanda: è ancora pittura? Non mi interessa tanto rispondere a questa domanda, quanto abitarla — usarla come uno spazio da esplorare, piuttosto che come un confine da tracciare”. La sua risposta non è teorica ma poetica: nei suoi lavori, la pittura diventa una metafora della mente, un luogo in cui le immagini vengono continuamente riscritte dal tempo, dal desiderio e dalla perdita.

Anche i quadri di Gideon Rubin, esposti allo stand della Galleria Monica De Cardenas, sembrano parlare con la voce sommessa del ricordo, dell’intimità e della perdita. Figure viste di spalle, volti cancellati, pose quotidiane che rimandano a un tempo sospeso tra infanzia e assenza: nei suoi dipinti, Rubin costruisce immagini che vivono sul confine tra la memoria privata e quella collettiva. Le superfici, lasciate in parte nude, respirano come fotografie sbiadite, dove ciò che è stato non è del tutto perduto, ma sopravvive come eco, come traccia. In questa pittura sobria e calibrata, ogni gesto è essenziale, ogni pennellata sembra tenere insieme tenerezza e oblio, trasformando la semplicità dei gesti comuni in un fragile atto di resistenza contro la scomparsa. “Un curatore ha detto che il mio lavoro ferma il tempo“, ha raccontato l’artista. “Credo derivi dal fatto che siamo ossessionati dalle differenze, quando invece siamo composti per lo più di somiglianze. Eliminando alcuni dettagli, anche i più piccoli, le immagini cambiano, si intrecciano e parlano a tutti”.

Nello stand della Galleria ChertLüdde di Berlino, alcune opere dalla patina dorata si facevano notare per la loro luminosità silenziosa e per la delicatezza emotiva che emanavano. Erano lavori di Rodrigo Hernández (Città del Messico, 1983) — The Kiss, In Bed in Maine e I Wonder How Quick You Will Forget About Me in Paris (2025) — realizzati in ottone martellato a mano, in cui il metallo, anziché imporsi per solidità, sembrava ammorbidirsi al contatto dello sguardo, trasformandosi in pelle, respiro, memoria. Le superfici dorate custodivano gesti intimi — un bacio, due corpi distesi, un profilo che si sfuma — come se la materia stessa avesse trattenuto un’emozione. In queste opere sembrava emergere una poetica dell’affettività e della prossimità, dove la materia diventa linguaggio emotivo: l’ottone riflette la luce e insieme la trattiene, come un sentimento che non si vuole lasciare andare. Tutto accade in silenzio: il contatto, il ricordo, la distanza che si scioglie — in un equilibrio fragile tra tenerezza e mistero, tra la solidità del metallo e la vulnerabilità del desiderio.

Non poteva mancare, in questa panoramica di lavori che si muovono tra intimità, memoria e tensioni affettive inespresse, la bravissima artista italiana Romina Bassu, presente allo stand di Studio Sales. Da tempo Bassu lavora su quel crinale ambiguo e disturbante in cui l’immagine femminile diventa specchio delle dinamiche di potere, del desiderio e della fragilità nei rapporti tra uomo e donna. La sua pittura, morbida solo in apparenza, è in realtà spietata e lucida: scava nella psicologia dei gesti quotidiani, nell’imbarazzo, nella sospensione che precede o segue l’azione. Nelle sue tele, corpi e volti si offrono con disarmante oggettività, ma subito si ritirano dietro una superficie lattiginosa, come schermati da un velo di tensione e di colpa. Le sue figure – donne che sembrano interpretare ruoli interiorizzati, sguardi che non si incontrano mai – abitano una zona di attrito sottile, dove eros e distanza, vulnerabilità e controllo si mescolano. Bassu trasforma così la pittura in uno strumento d’indagine psicologica, capace di toccare ciò che normalmente resta taciuto: il punto cieco delle relazioni, dove affetto e violenza, presenza e sparizione, si confondono.

Allo stand della Richard Saltoun Gallery, i dipinti di Bea Scaccia colpivano per la loro intensità visiva e psicologica, in bilico tra attrazione, decoratività, tensione e inquietudine; le sue figure, spesso femminili, sembrano dissolversi in un groviglio di capelli, foglie, perle e fili colorati: elementi ornamentali che si trasformano in trame interiori, come se la pittura desse corpo al tumulto di pensieri e desideri che abitano la mente. In queste immagini febbrili, il femminile appare come un campo di forze contraddittorie, dove l’ornamento diventa sintomo, la grazia si contorce nel grottesco e la superficie rivela più verità della profondità. Scaccia costruisce un universo teatrale di maschere e travestimenti in cui l’identità non è mai data, ma continuamente ricreata. Ogni dettaglio — un boccolo, una gemma, una trama di stoffa — funziona come una cellula del linguaggio dell’artificio, un lessico visivo che parla di corpo, di ansia, di desiderio. Come dice lei stessa, “tutto passa attraverso l’artificio, l’imitazione, il mascherarsi”: nei suoi lavori la pittura diventa proprio questo — un esercizio di trasformazione, un modo per interrogare la forma e il peso della finzione. Il risultato è una figurazione perturbante, che mescola attrazione e repulsione, decoro e disfacimento. Le sue creature, al tempo stesso bambole e mostri, evocano una femminilità costruita e deformata, dove l’apparenza non è menzogna ma un modo di sopravvivere. In un’epoca che idolatra l’autenticità, Scaccia ci ricorda che la maschera è il nostro vero volto.
Sculture e installazioni tra identità, rito, archeologia del presente
Una pletora infinita di oggetti bizzarri, di manufatti, di ready made, di esperimenti formali e anche di sculture, intese nel senso più tradizionale possibile del termine, abita da sempre le fiere — e Artissima 2025 non fa eccezione.

Nello stand di Loeve&Co., le opere di Roy Adzak (1933–1987) restituivano al corpo — e agli oggetti — il loro stato primario di impronta, di residuo. Nei suoi celebri calchi in negativo, la figura umana non era più rappresentata ma sottratta, ridotta a un vuoto che conserva la memoria di ciò che vi è stato. Queste cavità, che possono contenere tanto un volto quanto una bottiglia o una tazza, trasformano la materia in un archivio sensibile, una sorta di archeologia del presente. Tra pittura e scultura, tra positivo e negativo, Adzak lavorava su un confine ambiguo in cui la forma si fa assenza, e l’assenza, paradossalmente, diventa segno. Le prime opere di questo tipo risalivano al 1956, quattro anni prima delle Anthropométries di Yves Klein, e segnavano l’inizio di una riflessione ossessiva sul tema della traccia come testimonianza. Ogni impronta diventa frammento di identità, ma anche reliquia di un gesto quotidiano: nella superficie levigata del gesso o nella cavità scavata della materia, Adzak tratteneva l’istante in cui il corpo e gli oggetti smettono di essere uso o funzione per farsi presenza muta, residuo poetico del nostro passaggio nel mondo.

Allo stand di Richard Saltoun, le sculture di Flaminia Veronesi apparivano invece come reliquie di un culto arcaico e giocoso, in bilico tra il sacro, il grottesco e l’infantile. Le sue piccole figure in ceramica – ibridi di donna, animale e vegetale – mescolano erotismo e ironia, tenerezza e inquietudine. Corpi che si moltiplicano, seni intrecciati da tubi azzurri come vene o radici, volti blu incastonati in fioriture rosate, draghi e chimere che sembrano usciti da un sogno preistorico o da un mito marino. Il linguaggio di Veronesi è volutamente materico, imperfetto, quasi carnale: la ceramica modellata a mano conserva il gesto dell’artista, la sua fisicità, il suo respiro. In queste forme fragili e vitali, la scultura si fa rito di rigenerazione, un invito a riconnettersi con la natura e con l’immaginario femminile collettivo. Dietro la leggerezza dei colori e delle forme, affiora un pensiero profondo sulla cura e sulla maternità sociale, sulla possibilità di una rinascita condivisa.

Ancora ricco di riferimenti all’arcaismo e alla dimensione sacrale e sciamanica del quotidiano, lo stand di Spazio A di Piacenza presentava le opere di Chiara Camoni (che sarà protagonista del Padiglione Italia alla prossima Biennale di Venezia). Le sue sculture, realizzate in gres smaltato con cenere vegetale, terra, sabbia e minerali, si muovono tra oggetto e reliquia, corpo e paesaggio. L’Odalisca stesa sul tappeto, con i suoi frammenti inglobati nella materia, sembra un fossile domestico, una figura di passaggio tra umano e geologico. Accanto, i suoi Piccoli Demoni (Coppia) – due presenze inquietanti e meravigliose, insieme grottesche e magnetiche, in sottile e precario equilibrio fra l’umano e l’animale –, conservano un’energia ambigua e arcaica: sono spiriti di terra e di cenere, compagni silenziosi di un rito che riguarda più la vita che la forma. In Camoni la scultura rinuncia alla sua compiutezza formale per assumere l’aspetto di un organismo in divenire, in cui la materia conserva la memoria del gesto, della memoria e del tempo.

Tra gli stand che accennavano a una dimensione sciamanica e rituale, quello di Esther Schipper si distingueva per coerenza e misura. Thomias Radin vi articolava un ambiente che univa pittura, scultura e installazione in una sorta di rito visivo, dove elementi arcaici e segni contemporanei si richiamavano con discrezione. L’arco ligneo che introduceva lo spazio sembrava invitare a un attraversamento: una soglia fra visibile e invisibile, tra la memoria e la materia. All’interno, i pannelli di Radin, incisi e dipinti come altari di legno, evocavano corpi in tensione, figure danzanti, spiriti in metamorfosi. Le superfici, attraversate da tonalità terrose e da accensioni metalliche, richiamavano le stratificazioni del tempo e della storia, come se la pittura stessa trattenesse il ritmo di un respiro antico, mentre le sculture, come strani strumenti rituali, componevano una topografia intima, dove il gesto del corpo si faceva linguaggio e la memoria si trasformava in materia. Tutto, nello spazio di Schipper, sembrava muoversi secondo un battito lento e organico, in bilico fra danza e preghiera, presenza e sparizione.

Francesco Vezzoli Gotesque Portrait of William Holden 2023 Hellenistic terracotta head Venini Sommersi Oro vase from the series Laura Courtesy Franco Noero
Bellissima e conturbante anche la piccola scultura di Francesco Vezzoli, Grotesque (Portrait of William Holden), presentata da Franco Noero. Una testa ellenistica in terracotta è accostata a un vaso “Sommersi Oro” di Venini, disegnato da Laura Diaz de Santillana: l’antico e il moderno legati in un equilibrio sospeso tra ironia e devozione. Come spesso nel lavoro di Vezzoli, il gesto di assemblare oggetti carichi di memoria diventa una riflessione sul culto dell’immagine e sulle forme della sua sopravvivenza. La dedica a William Holden, attore hollywoodiano e collezionista di arte antica e asiatica — la cui vasta raccolta comprendeva reperti egizi, figure greche, bronzi cambogiani e oggetti tibetani — si inserisce nella costellazione di rimandi che attraversa tutta la sua ricerca: un’archeologia del desiderio in cui divismo e ritualità, cultura pop e memoria classica si fondono in una messa in scena raffinata e ambigua. Il mix di materiali e manufatti assume il ruolo di medium tra epoche e linguaggi, come se il passato e il presente si specchiassero l’uno nell’altro. In questo cortocircuito, Vezzoli torna a interrogare i meccanismi con cui l’arte e la società costruiscono il mito, sospendendo lo sguardo tra seduzione e reliquia, tra glamour e rovina.

Di grande forza anche la scultura di Johan Creten, Perla Nera – Le striature verticali (2024–2025), presentata da Alfonso Artiaco: un volto che sembra affiorare da un guscio minerale, a metà tra maschera e reliquia. L’opera concentra in pochi centimetri la tensione materica tipica dell’artista, dove la ceramica diventa superficie viva, corrosa, ambigua. Più che descrivere, Creten lascia che la forma agisca: fragile e minacciosa, come un respiro che si fa pietra.

Di grande impatto anche la parete di maschere di Wael Shawky (prossimo curatore dell’edizione inaugurale di Art Basel Qatar) nello stand di Lia Rumma, parte della serie I Am Hymns of the New Temples, già presentata a Palazzo Grimani durante l’ultima Biennale. In queste teste grottesche e solenni, sospese tra rito e teatro, l’artista egiziano condensa la sua riflessione sul potere delle narrazioni e sulla costruzione delle identità collettive. Le espressioni, a metà tra caricatura e icona, evocano una coralità arcaica: un coro antico che parla al presente, in bilico fra ironia e tragedia. Come nei suoi film e nelle installazioni più note, Shawky intreccia mitologia, religione e politica in una visione che ribalta la prospettiva eurocentrica della storia, restituendo al volto umano la sua dimensione rituale, inquieta e universale.

Delicatissime e poetiche le sculture di Elisabetta Di Maggio presentate da Studio Trisorio, ottenute intagliando con il bisturi vere foglie (in un caso, di loto) disidratate. La sua ricerca parte sempre da un gesto minimo, quasi meditativo, che trasforma la materia naturale in mappa, rete, organismo. Le foglie, le carte, i tessuti diventano strutture viventi, attraversate da un ritmo che ricorda quello delle cellule, delle città, delle connessioni neuronali. Ogni taglio è un atto di resistenza al tempo, una forma di contemplazione. Nel mondo fragile e meticoloso di Di Maggio, la vita appare come una trama infinita di relazioni: frattale, precaria e insieme indistruttibile.

A proposito di natura, ecco invece, nello stand di Alice Amati, una serie di sculture ironiche, paradossali, giocose, bizzarre, che traducono il senso del tempo cosmico nel linguaggio più domestico e festoso che esista: la torta di compleanno. Nelle opere di Ilaria Vinci, l’universo intero diventa una pasticceria surreale: “Happy 4.53 billionth birthday” (per la Terra), “Happy 234 millionth birthday” (per Sirio), “Happy 13.6 billionth birthday” (per la Via Lattea), “Happy 3.5 billionth birthday” (per Andromeda), de “Happy 4.5 billionth birthday” (per Mercurio). Torte perfettamente glassate in tonalità pastello, ornate di candeline e scritte infantili, che celebrano compleanni impossibili, sovrapponendo la scala umana del festeggiamento a quella incommensurabile del cosmo. Dietro la loro grazia pop e la loro allegria apparente, queste sculture mettono in scena l’assurdità della misura umana del tempo: un brindisi al nulla, un sorriso rivolto al mistero.

Impossibile, poi, non imbattersi (e, almeno nel mio caso, non innamorarsi all’istante) nelle opere di Lydia Ricci nello stand di Vin Vin, Vienna: piccole, ironiche, eppure di una potenza poetica sorprendente. Ogni miniatura nasce da materiali di scarto, carta, cartone, stoffe e frammenti raccolti nel tempo e accumulati dall’artista nel suo studio per oltre trent’anni, trasformati in sculture che condensano intere minuscole biografie domestiche: un ferro da stiro, un flipper, una sedia di plastica, un autobus, un posacenere. Con un linguaggio che intreccia memoria, affetto e critica ambientale, Ricci ricompone ciò che resta del quotidiano in un archivio sentimentale della contemporaneità. Ogni oggetto sembra vibrare tra nostalgia e leggerezza, tra la tenerezza dell’infanzia e l’assurdo dell’accumulo. Le sue sculture, sospese nello spazio, diventano piccole epifanie del vissuto: reliquie ironiche di un mondo che consuma troppo, ma che — grazie a gesti come il suo — continua a trovare poesia anche tra le macerie.

Infine, da segnalare senz’altro – nello stand di Fuocherello, galleria torinese dedicata alla scultura e nata all’interno della Fonderia artistica De Carli di Volvera, poco fuorti Torino – la scultura più piccola, se non del mondo, certamente della fiera: un minuscolo profilo ligneo di Maria Deval, appena 2,4×0,3×0,3 cm, una presenza quasi impercettibile, intagliata con la precisione di un orafo e la delicatezza di un respiro. Artista italo-tedesca attiva in Toscana, Deval concentra in questo caso la propria ricerca sul tema della piccola dimensione, intesa non come semplice miniatura ma come spazio di concentrazione e di ascolto, dove il gesto diventa quasi esercizio di meditazione. Le sue opere — talvolta intagliate nel nocciolo di un avocado, talvolta ricavate da frammenti lignei infinitesimali — sembrano custodire un’intera geografia interiore, un mondo che si fa microscopico per necessità di verità e misura. In questa scultura minuscola, la fragilità della materia si trasforma in un atto di sottile e flebile estasi poetica.

Ed è forse proprio da quella stessa dimensione di fragilità e intimità, da quel gesto minimo che diventa linguaggio, che si apre una delle trame più sensibili di questa Artissima: quella legata all’uso di stoffe, tessuti, fili, ricami e materiali domestici. Sempre più spesso, come già nelle ultime Biennali, gli artisti tornano a lavorare con ciò che apparteneva alla sfera privata e silenziosa del cucire, per ritrovare nella manualità un legame con la memoria, con l’origine, con il tempo. Non è un semplice ritorno all’artigianato, ma un modo per restituire alla materia una voce, per farle raccontare le mani e le vite che l’hanno attraversata. Emblematica, in questo senso, l’opera partecipativa di David Medalla, A Stitch in Time, presentata nello stand di Enrico Astuni. Ideato nel 1967 come progetto aperto e collettivo, A Stitch in Time ha attraversato decenni e continenti, trasformandosi ogni volta in qualcosa di nuovo: da Documenta 5 curata da Harald Szeemann alla Biennale di Venezia del 2017, da Londra a Bologna, da Roma a Kassel. Medalla aveva concepito quest’opera come un gesto d’amore e di condivisione, un invito a cucire, ricamare, aggiungere un frammento di sé su un grande telo sospeso, destinato a crescere e mutare nel tempo. Ogni intervento, anche il più piccolo, diventa parte di un racconto universale: una trama di mani, di gesti, di vite che si intrecciano come fili nello spazio e nella memoria. Anche noi, come tanti visitatori, abbiamo infilato un filo nel tessuto, contribuendo per un istante a quella trama collettiva che Medalla ha immaginato più di mezzo secolo fa.


