Bloodlines: il capitolo più folle di Final Destination

Nel gran teatro dell’horror contemporaneo, dove maschere e mostri si contendono il palco con serial killer dall’animo teatrale, c’è una saga che ha scelto di raccontare l’invisibile. Niente lame, niente carnefici in carne e ossa: in Final Destination, l’assassino è il caso stesso, o meglio, l’assenza del caso, la geometria terrificante del fato. A venticinque anni dalla prima visione profetica che fece esplodere in volo il famigerato volo 180, la saga torna con un nuovo capitolo, Final Destination: Bloodlines, risvegliando quel brivido arcano che ci fa guardare con sospetto una vite allentata, un bicchiere che traballa, un soffio di vento troppo insistente. 

È il sesto capitolo di una saga che ha fatto della morte un’architetta ossessiva che tesse trame con sadica precisione, orchestrando morti non solo inevitabili, ma esteticamente composte come partiture di sangue e ingegno. L’horror, in questa saga, diventa ingegneria del destino.

Con Bloodlines, la saga affida il timone a Adam Stein e Zach Lipovsky, registi già noti per Freaks, e sembra voler congiungere le radici mitologiche del franchise con una nuova linfa stilistica. Le premesse promettono un ritorno all’horror come sguardo sospettoso sulla realtà quotidiana: ogni oggetto, ogni angolo, ogni interstizio del mondo si trasforma in una minaccia in potenza. La realtà stessa è un meccanismo in attesa di scattare.

Questo nuovo capitolo non tradisce il suo lascito. Anzi, lo incensa e lo esaspera: prende la formula e la droga, la spara come un proiettile nei territori del grottesco. La morte qui non è più solo un’idea, ma una coreografa sadica e geniale, che mette in scena ogni dipartita con la precisione di un orologiaio impazzito. La scena nel negozio di tatuaggi è un piccolo capolavoro di tensione slapstick: una danza mortale tra aghi, inchiostri e corpi impreparati.

Il film si apre con un prologo ad alta quota, un ristorante in cima a una torre, scenario da incubo e palcoscenico della catastrofe, che ritorna come ossessione nella mente della protagonista, Stefani Reyes (Kaitlyn Santa Juana), in una ciclica rievocazione che sa di trauma e presagio. Il tempo, come la morte, non si muove più in linea retta: torna, si ripiega, si attorciglia.

L’unica voce del passato a farsi sentire è quella, ormai stanca e spettrale, di Tony Todd, nei panni dell’iconico Bludworth, oscuro custode delle regole non scritte. La sua presenza, quasi un epitaffio vivente, conferisce al film un chè di elegiaco. Todd è morto poco dopo le riprese, dettaglio che rende la sua apparizione un memento mori tanto reale quanto simbolico. E allora, chi cerca l’horror intimo, sussurrato, gotico, girerà al largo. Ma chi ha voglia di una danza macabra, chi accetta l’idea che anche la morte, nel suo sadismo, possa farsi intrattenimento, troverà qui un carnevale degli orrori degno di nota. 

Final Destination: Bloodlines non reinventa la ruota, ma la fa girare con una furia rinnovata, sfidando lo spettatore a distogliere lo sguardo mentre lo costringe a scrutare ogni dettaglio del mondo con paranoica attenzione. La saga ora sembra voler chiudere un cerchio. Come una formula incisa nel tempo, il destino continua a scrivere il proprio spartito. E noi, come sempre, siamo solo le note

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