Nel 1930, André Breton scriveva che il Surrealismo è “automatismo psichico puro”, un fluire libero del pensiero, sganciato da logiche morali o estetiche. La mente, liberata, produceva immagini spiazzanti: donne con teste di frutta, orologi molli, pianoforti in decomposizione. L’intento era far emergere l’inconscio, dare voce all’illogico. Ma cosa succede oggi, quando l’inconscio è un algoritmo e l’illogico è un feed che non finisce mai? La risposta sta in un termine che sembra uscito da una filastrocca psichedelica: brain rot, ovvero marciume cerebrale.
Non è un caso che il brain rot sia diventato virale proprio ora, in un’epoca in cui la produzione di contenuti ha raggiunto un’accelerazione oscena. In un minuto, TikTok può passare da un tutorial di trucco su un treno giapponese a un ragazzo che piange mangiando carote, al deepfake di SpongeBob che canta Billie Eilish. Ogni immagine è spinta al massimo della saturazione, ogni suono è compresso, remixato, strillato. È la logica del bombardillo: uno schianto continuo di contenuti che non si fermano mai, che entrano in testa come coriandoli lanciati da un elicottero durante un carnevale apocalittico.
Nel cuore del brain rot c’è un’estetica che potremmo definire post-surrealista involontaria. Non c’è più un intento artistico, non c’è più Breton o Dalí dietro le quinte: c’è un algoritmo. Ma il risultato visivo è stranamente simile: ibridi assurdi, animazioni disturbanti, sovrapposizioni improbabili. Una rana in CGI che fa yoga sul tetto di un McDonald’s durante un uragano. È come se il Surrealismo fosse stato risucchiato nella centrifuga dell’ironia post-internet, sputato fuori e rivestito di sticker fluo e filtri vocali.
Ma se il Surrealismo cercava di liberare la mente, il brain rot la costringe. Non è più un viaggio nell’inconscio, ma un collasso cognitivo. Il cervello si decompone sotto l’iperstimolazione, e la soglia dell’attenzione si restringe fino a diventare una fessura. Tre secondi. Due. Uno. Skip. Lo spettatore medio non guarda più, assorbe, mentre l’immagine non è più contemplata, piuttosto subita.
Il linguaggio del brain rot è fatto di nonsense e accelerazione. Nascono personaggi-meme come Skibidi Toilet o Sigma Rizzler, mutanti narrativi senza spessore, che vivono e muoiono nello spazio di un trend. Sono le nuove icone del vuoto: non pittori, ma frattali impazziti che riflettono la nostra incapacità di stare fermi. Eppure, in questo delirio, c’è qualcosa di ipnotico, quasi rituale. Il brain rot è una danza sfrenata sull’orlo del baratro cognitivo, una sorta di baccanale digitale.

“Bombardiro crocodilo” è il mantra estetico di questa condizione: è infantile, animalesca, sonora. Ricorda i titoli delle poesie dadaiste o i versi di una canzone dei Gorillaz impasticciata da un bambino di 4 anni. E proprio per questo funziona: perché si inserisce nel cervello attraverso un varco secondario che aggira la comprensione divenendo un virus semiotico.
Cosa ci dice, tutto questo, sullo stato attuale dell’arte e dell’immagine? Che siamo oltre la forma. Che l’immagine oggi non ha più bisogno di significare: deve semplicemente colpire. Non racconta, non evoca, non spiega. Performa. Il brain rot è la nostra trance contemporanea, è la maschera deformata che balla sullo schermo mentre noi fissiamo, con la bocca aperta, senza sapere perché.
Il brain rot è figlio di una cultura che non ha più tempo per elaborare. Tutto deve arrivare subito, scomparire subito, essere immediatamente condivisibile. Eppure, dentro questa frenesia, c’è anche un’intuizione profonda: che il pensiero lineare è morto, che l’immagine non è più strumento di rappresentazione, ma di attivazione. Il bombardillo coccodrillo non è solo un sintomo: è una nuova grammatica, caotica, disturbante, ma reale.
Forse, come Breton, dobbiamo imparare a leggerla senza giudicarla, a lasciarci andare, anche noi, al flusso marcio della mente. Per scoprire che, nel mezzo del brain rot, si nasconde un nuovo surrealismo. Uno sporco, glitchato, ubriaco surrealismo. Ma ancora, incredibilmente, vivo.