Codice Canalini, un libro per ricordare l’editore che con Tondelli scoprì i giovani talenti “Under 25”

Di Massimo Canalini, editor di Transeuropa, casa editrice con sede “in” Ancona, nel 1992, Antonio Franchini, allora curatore editoriale della narrativa italiana in Mondadori, aveva scritto: “a Massimo Canalini si dovrà riconoscere, quando si vorrà studiare la narrativa italiana di questi anni, di essere stato uno straordinario scopritore di talenti”. Erano parole contenute nella postfazione della riedizione di Outland Rock di Pino Cacucci, uscita quell’anno nella collana I Gabbiani per i tipi di Mondadori, e pubblicata originariamente nel 1988 per Transeuropa. Era la stessa Transeuropa che tra il 1987 e il 1990 aveva pubblicato le tre antologie Under 25, fatte di racconti di giovani scrittori italiani al di sotto di quell’età, in un’operazione voluta e curata da Pier Vittorio Tondelli.

Con il romanzo di Cacucci, poi con gli Under 25, poi ancora con i numerosi autori usciti da quelle antologie e diventati di successo, Massimo Canalini e Transeuropa avevano dimostrato una cosa nuova: che un giovane poteva scrivere, essere pubblicato, e perfino fare sfracelli sul mercato anche se era un outsider, cioè privo della formazione-standard da letterato, e soprattutto privo delle entrature nei salotti letterari giusti e di quelle amicizie che, sin lì, erano state l’unica strada per farti considerare dalla grande editoria. A partire dalle copertine ideate da Canalini, perfettamente pop e post-moderne, i libri Transeuropa erano differenti. Prima ti saltavano agli occhi in libreria, poi li leggevi e trovavi qualcosa di completamente diverso dal panorama editoriale di fine anni Ottanta. Erano storie fresche, giovani, generazionali. Canalini aveva delle antenne speciali, che gli permettevano di scovare giovani talenti e con quelli entrare in sintonia. Li chiamava a sé, ad Ancona, in provincia (altro topos tipico di quella stagione letteraria), e con loro lavorava sui testi, tirando fuori l’anima di quella generazione, scavando nel grezzo dei loro racconti e romanzi per trovare il nocciolo delle storie e tirarlo a lucido a forza di indicazioni, correzioni, riscritture, cioè fino quando, quel nocciolo, non lo raccontavano col sound, o se preferite la voce, per lui giusta. Una voce che non era mai doloristica, mai autocommiserante, sempre invece spavalda, sarcastica, raramente tenera.

Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta è nato un genere a sé, trasversale, quello degli esordienti/giovani scrittori, e lo si deve a Canalini. Con Transeuropa aveva sfornato l’esordio di Cacucci, poi Charles (il secondo romanzo di Claudio Piersanti), e poi ancora Il compleanno dell’Iguana (1991) e La guerra degli Antò (1992), esordio e secondo romanzo di Silvia Ballestra, mentre nel 1994 sarebbe uscito il suo colpo più clamoroso, Jack Frusciante è uscito dal gruppo, esordio di un giovanissimo Enrico Brizzi, caso editoriale da 50mila copie, cifra enorme per un piccolo editore, e che poi, ceduti i diritti a Baldini & Castoldi, sarebbe diventato il successo epocale da un milione di copie che conosciamo. E con Transeuropa ha esordito anche una pletora di autori oggi forse meno noti, passati poi a una buona carriera con case editrici major: Romolo Bugaro, Angelo Ferracuti, Andrea Demarchi, Silvia Magi, Roberto Ferrucci, Marco Franzoso, solo per ricordarne alcuni.

Il memoir Codice Canalini, scritto da Giulio Milani e pubblicato nel dicembre 2024 da Transeuropa (che da anni è un marchio diventato di proprietà di Milani stesso), racconta tutto questo e molto di più. Racconta infatti l’intera epopea editoriale e umana di Massimo Canalini, scomparso prematuramente nel settembre 2024, a soli 68 anni. Giulio Milani è stato anche autore che ha lavorato “sotto” Canalini, che gli ha fatto da editor nei suoi esordi (pubblicati però fuori da Transeuropa, ma non allarghiamo troppo i confini di questa storia). Milani di Canalini è stato anche e soprattutto amico, socio, anzi doppio, tanto che in questo memoir sembra di sentirne la voce: adenoidale, sarcastica, spesso in falsetto, comunque sempre sopra le righe. È un libro interessantissimo, che ci descrive uno spaccato dell’intera scena culturale italiana dalla fine degli anni Ottanta ai primi Duemila, forse solo a tratti un po’ confusionario e talvolta troppo “urlato”. Ma è un libro che funziona, è un documento importante. A cui va detto che ho contribuito anch’io (sebbene un po’ controvoglia), così come vi hanno contribuito altri autori che da Transeuropa sono passati: abbiamo condiviso i nostri ricordi in interviste raccolte da Giulio Milani e da Davide Bregola, poi editate e disciolte nel testo. Il mio contributo, per non sollevare dubbi di piaggeria, è stato comunque del tutto secondario e ovviamente gratuito.

Codice Canalini mette nero su bianco alcune cose mai abbastanza dette, per esempio l’editing invasivo. Con Canalini si poteva discutere per un’ora su una singola frase e l’aveva sempre vinta lui, come racconta Milani e come racconta anche Romolo Bugaro nella postfazione della recentissima nuova edizione del suo splendido La buona e brava gente della nazione, a cui aveva lavorato con l’editor anconetano. Massimo riscriveva, toglieva, talvolta persino innestava. E certi libri pubblicati da Transeuropa, così ancora racconta il libro di Milani, sembravano scritti dello stesso autore, tanto Canalini ci riversava dentro la voce che voleva sentire e che era uguale per tutti, perché in fondo era la sua.

Un editing di quel tipo poteva durare letteralmente anni. Lo si faceva esclusivamente in presenza, in Ancona. Non importa dove l’autore abitasse, bisognava andare lì. E spesso quando si era lì non si era soli, ma c’era tutto un giro, un cenacolo, insomma un gruppo di altri autori in corso di editing e speranzosi di prossima pubblicazione. Massimo aveva più di quarant’anni, gli autori erano nei loro venti o trenta, inevitabile che lui considerasse i suoi scrittori come allievi. Le discussioni sul mondo duravano fino a tarda notte, prima in ufficio, poi al ristorante, poi in giro per i bar della città e del porto di Ancona. Esserci ti dava un senso di appartenenza, di privilegio, ma eri anche conscio di mettere il tuo destino nelle mani di Canalini. Che era un uomo difficile. Era spiritoso, intelligente, anzi a suo modo geniale, ma era anche corrosivo, impietoso, dotato di una smisurata fiducia in sé stesso. Con lui ho lavorato per anni, a un romanzo che poi non è uscito per Transeuropa, e ne sono uscito sfinito. Ma a ripensarci a quasi trent’anni di distanza, quella che provo è riconoscenza per tutto il tempo che ha investito su di me, e per tutto ciò che, in quegli anni complicati, mi ha comunque insegnato.

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