Cronenberg e il lutto post-umano: “The Shrouds” è un requiem digitale, ossessivo quanto avvincente

I temi cari al regista David Cronenberg ricordano quelli affrontati dai filosofi e pensatori dell’epoca vittoriana e di inizio Novecento, come Freud, Jung e Charcot, pionieri della psicoanalisi. Al centro c’è il rapporto complesso e spesso disturbato che abbiamo con l’abitare il nostro corpo e la difficoltà di relazionarci a quelli degli altri, in un mix di pulsioni profonde come attrazione, repulsione, desiderio e terrore di fusione e conflitto.

Cronenberg, però, aggiunge a tutto questo un elemento che ai tempi dei padri della psicologia, era del tutto inimmaginabile: l’invasione della tecnologia, l’ibridazione tra carne e macchina, e le mutazioni dell’identità che ne derivano. Ne scaturisce che i suoi film finiscono con l’interrogare non solo l’inconscio, ma anche il post-umano

Il film The Shrouds – Segreti Sepolti, attualmente nelle sale, si inserisce perfettamente in questo filone, ma testimonia anche un’altra delle caratteristiche tipiche del cinema Cronenberghiano – termine necessario per un autore del suo calibro, la cui visione unica merita un neologismo personalizzato – ovvero la sua straordinaria capacità di concepire idee visionarie e profondamente originali, addirittura geniali, accanto però alla difficoltà nel tradurle in una narrazione all’altezza dell’intuizione di partenza. Come se l’intensità concettuale superasse, a tratti, la forza del racconto. 

La storia segue le vicende di Karsh (Vincent Cassel), l’imprenditore di un business tanto atipico quanto visionario, è infatti l’ideatore di GraveTech, una tecnologia che consente ai familiari dei defunti di mantenere un’illusoria forma di “contatto” con i propri cari tramite un’app sul cellulare. Questa applicazione è connessa a un sudario ultra-tecnologico installato nella bara, attraverso il quale è possibile osservare in tempo reale, e in qualsiasi momento, il corpo del trapassato e, di conseguenza, seguire il processo di decomposizione. 

A rendere ancora più surreale l’intero impianto, è l’estetica stessa dei sudari, color grafite, che assomigliano a dei kimono giapponesi. Queste vesti funebri svolgono una funzione doppia e contraddittoria: occultare e, contemporaneamente, mostrare il morto attraverso l’uso del cellulare. 

Nel film viene quindi sovvertita l’idea tradizionale del sudario come oggetto che vela la morte, in perfetta sintonia con l’ambiguità esistenziale del film. Non a caso, è proprio questo elemento a dare il titolo all’opera. Karsh sta elaborando il lutto per l’adorata moglie Becca, sfruttando egli stesso la sua invenzione fino a sfiorare i limiti dell’ossessione. Limiti che si fanno ancora più labili quando entra in gioco Terry, sorella e sosia della defunta Becca, interpretata anch’ella da Diane Kruger, sottolineando a livello visivo e narrativo l’ambiguità e il doppio legame tra amore, perdita e identità. 

È impossibile non notare un eco hitchcockiano nel nome della defunta moglie: Becca richiama Rebecca, la celebre “prima moglie” del capolavoro di Alfred Hitchcock del 1940. Anche in quel caso, il protagonista (Maxim de Winter) è ossessionato dal ricordo della moglie defunta, in una dinamica psicologica che sfiora la nevrosi — proprio come Karsh, prigioniero di un lutto che la tecnologia trasforma in presenza costante e inquietante. 

Ovvio che, quando il cimitero di lusso di Karsh viene vandalizzato e la tomba di Becca subisce danni, per lui inizia una caccia che non è solo mirata a tutelare il suo business, ma rappresenta qualcosa di molto più profondo e personale. Durante le indagini per scoprire cosa sia successo, Karsh cercherà l’aiuto di Maury (interpretato da Guy Pearce), suo ex cognato ed ex marito della sorella di Becca, un individuo a sua volta ossessionato dalla donna che lo ha lasciato molti anni prima. 

I due uomini, come uno specchio l’uno dell’altro, sono imprigionati in un lutto che non riescono ad elaborare, un dolore che è ormai il loro vero e unico corpo, da cui non riescono ad uscire. Queste emozioni devastanti sono descritte dal regista come autobiografiche e profondamente personali, e trasformano la pellicola in una confessione intima da interpretare.

Il film prosegue con una narrazione così densa da bombardare lo spettatore, compromettendo la comprensione degli eventi eccessivamente condensati. In effetti, The Shrouds nasce inizialmente come una serie per Netflix, ma è stato rifiutato dopo la lettura della sceneggiatura dei primi due episodi. Il risultato su grande schermo resta ipnotico: le molteplici metafore e visioni simboliche, come quelle oniriche di Karsh, incantano per l’astuzia con cui sono presentate: la delicatezza delle relazioni umane si concretizza nella fragilità del corpo di Becca, che anche in sogno il marito non può abbracciare, pur desiderando disperatamente di farlo, per il timore che si rompa già solo sfiorandola data la vulnerabilità del suo corpo. 

Inevitabili sono le riflessioni sul sistema sociale in cui viviamo, che sembra non avere la priorità di curare le nostre ossessioni. Mentre in molte società primitive, attraverso riti catartici e apotropaici, si tentava di allontanare il male “interiore”, oltre che quello che proveniva dall’esterno, oggi, invece, gli schermi e i comportamenti ossessivi vengono amplificati e legittimati, come nel voyeurismo costante che ci insegna la cultura dei social media. 

Qui, l’attaccamento perpetuo alla vita delle persone che abbiamo intorno diventa una sorta di dipendenza, un effetto collaterale dell’impossibilità di staccarsi, dal bisogno di sapere sempre cosa accade nelle vite degli altri. Suona quasi verosimile l’ipotesi di un sudario collegato a un’app, che consenta di osservare e rimanere legati a qualcuno di trapassato, senza la capacità di poter andare oltre, in modo tanto ossessivo quanto inquietante. Ma soprattutto “concesso”, in una realtà in cui il confine tra vita personale e spettacolo è stato ormai definitivamente, valicato.

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