Crypto Art: l’avanguardia che abbiamo ignorato (e che ora dobbiamo riscoprire)

C’è stato un momento, nemmeno troppo lontano, in cui ci siamo trovati davanti a una rivoluzione e abbiamo scelto di non vederla. La crypto art, quella corrente di opere nate in un ecosistema decentralizzato, fluido, strutturalmente nuovo, ha avuto la forza di ridisegnare le condizioni materiali ed estetiche della produzione artistica nel nostro tempo, eppure non le abbiamo dato il giusto credito. L’abbiamo osservata con il sospetto riservato a ciò che non riusciamo a controllare, e l’abbiamo lasciata crescere in un altrove culturale, senza mai offrirle una casa istituzionale degna, senza farle spazio nel nostro discorso critico, senza davvero ascoltare quello che aveva da dire.

Abbiamo preferito rifugiarci nelle certezze della pittura, nei rassicuranti riferimenti intellettuali dell’arte concettuale, in un ritorno in massa all’oggetto, al corpo, alla tattilità: come se il digitale fosse una malattia passeggera, un raffreddore del mercato, e non una trasformazione epocale dell’immaginario. È stato, a tutti gli effetti, un rigetto culturale di una società, la nostra, che si sviluppa per sterili dicotomie. Abbiamo risposto all’eccesso di novità con una regressione conservatrice, abbiamo scelto la familiarità delle cornici e delle superfici a olio perché ci sembravano più vere, più autentiche, più arte. Ma era una trappola percettiva. Perché intanto la crypto art stava facendo quello che da sempre chiediamo all’arte: leggere il tempo, sporcarsi con il presente, usare i mezzi contemporanei per dire qualcosa che riguarda tutti.

Chatbot and Chill XCOPY courtesy of SuperRare

Il problema non è che fosse digitale. Il problema è che era autonoma, autosufficiente, libera e fluida. È nata fuori dai circuiti tradizionali, ha costruito le proprie piattaforme, le proprie comunità, i propri criteri di legittimazione, e per questo ci ha spiazzato. Non riuscivamo a collocarla nelle mappe consolidate. Non era né net art, né glitch art, né arte generativa classica. Era un’altra cosa. E quando una cosa non la capiamo, il sistema dell’arte tende a ridurla, deriderla, isolarla. L’abbiamo trattata come fenomeno laterale, come moda, come pura speculazione. Ma sotto il rumore delle aste record, sotto l’estetica ipersatura, c’era – e c’è ancora – un’interrogazione radicale su cosa sia un’opera, su cosa significhi collezionare, su chi ha il potere di dire cosa è arte e cosa no.

Artisti come XCOPY, con i suoi lavori glitchati e distopici, avevano già tracciato una direzione visiva concreta per il nuovo millennio. Le sue opere, dense di critica e ironia, non erano prodotti da mercato, ma visioni che interpretavano il trauma digitale con feroce lucidità. Pak, con i suoi progetti concettuali come The Merge, ha usato la blockchain non solo come medium, ma come parte integrante della narrazione. Sasha Stiles, poetessa e artista AI, ha ridato forma alla parola scritta nel contesto del linguaggio macchina. Refik Anadol lavora con i dati, li trasforma in ambienti sensoriali che non si limitano a decorare, ma espandono la percezione.

E poi ancora All Seeing Seneca, la mente visiva dietro il progetto Bored Ape Yacht Club, che ha mostrato come la cultura visiva possa colonizzare spazi inattesi e trasformarsi in fenomeno pop. Ma pochi li abbiamo trattati come autori veri. E ancora meno li abbiamo esposti, discussi, compresi.

Killing you egoDotPigeon

E in Italia? Anche qui abbiamo avuto pionieri che non abbiamo saputo valorizzare appieno. Skygolpe, con la sua estetica potente, quasi brutalista, capace di interrogare il sé attraverso una geometria del digitale; Hackatao, tra i primi ad aver creduto nel potenziale degli NFT, con un immaginario cripto-esoterico che ha anticipato temi oggi ricorrenti nella cultura visuale post-internet; DotPigeon, che ha saputo portare l’ironia e la critica sociale nel linguaggio pop del crypto mercato, spesso mascherando riflessioni complesse dietro un’estetica accattivante.

Abbiamo perso tempo prezioso a chiedere se gli NFT fossero arte, senza accorgerci che intanto stavano già cambiando la grammatica del visivo. La crypto art ha proposto nuovi formati, nuove durate, nuovi tipi di fruizione, e soprattutto ha ridefinito la relazione tra artista e pubblico: non più filtrata da curatori e galleristi, ma diretta, immediata, comunitaria. È stato un laboratorio di forme e relazioni che il mondo dell’arte ha ignorato proprio mentre avrebbe dovuto studiarlo, metabolizzarlo, investirci. Abbiamo avuto paura della sua velocità, della sua tecnicità, del suo linguaggio interno, e allora abbiamo scelto la scorciatoia della diffidenza. Ma forse oggi, con un po’ di lucidità, possiamo ammettere che è stata una forma di pigrizia culturale.

Guardando ora esperienze come Offline di SuperRare, che porta le opere digitali nello spazio fisico senza svilirle, ma anzi riconoscendone piena dignità espositiva, ci rendiamo conto di quanto fosse necessario quel passaggio, quanto fosse urgente costruire ponti e non muri. Perché la crypto art non era un mondo chiuso, ma un’anticipazione. Era la prima vera avanguardia dell’era post-internet, e noi non abbiamo saputo riconoscerla in tempo. Abbiamo avuto paura che il digitale ci escludesse, e per difesa ci siamo arroccati in un’idea di arte che era più accademica che viva, più museale che reale.

Questa è una riflessione tardiva, certo, ma non definitiva. Perché la crypto art è ancora lì, e aspetta solo di essere letta con più onestà, più curiosità, meno pregiudizi. È tempo di smettere di chiedere se sia arte, e iniziare a capire che tipo di arte è diventata, che tipo di futuro ci propone, quali estetiche ha prodotto e continuerà a produrre. Non dobbiamo pentirci del passato, ma possiamo imparare qualcosa. Possiamo cominciare a raccontarla meglio, studiarla con gli strumenti giusti, entrare nel merito e non fermarci al rumore. Abbiamo sbagliato nel sottovalutarla, ma abbiamo ancora tempo per rimediare.

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