Se homo videns è stato tale nel seno domestico, al cospetto di un focolare che evoca un’Italia ben più distante nel tempo, gli occhi rivolti a quella scatola animata che diede i natali a un sentimento nazionale oltre la ruralità e l’eroica distruzione delle guerre, il contemporaneo homo audiovidens si manifesta ovunque e ovunque risuona, sonoro e ridereccio, acritico e protestante.
Se la televisione ha rivoluzionato l’informazione, e con essa l’umanità di ogni giorno, ricalibrando la gerarchia funzionale della casa e ridefinendo la qualità del suo tempo, il digitale ha reinventato la comunicazione nel modo più pervasivo e subdolo: accasandola nelle nostre tasche e accelerandola al di là dello spazio. Immagini, suoni e testi sono fruibili proprio ovunque: sotto le coperte o sul treno a fine giornata; al bar o in ufficio; in auto, esponendoci al pericolo, e persino sott’acqua. La componente sonora e quella memica si fanno diffusamente trend, e auto-rappresentiamo il mondo attraverso dicerie, nuovi modi di dire e chiavi ironiche che perpetuiamo al di là della dimensione digitale, che è già sociale.

right painting Is Social Media Toxic and Should You Quit 2018 Acrylic on Canvas 90cm x 130cm
Oggi, insomma, l’immagine non è più quella televisiva, inscenata e rappresentata con un copione e una ratio alle volte artistica, lungamente dibattuta prima di trovarsi “in onda”, ma deve essere rapida e onnipresente, statica o frenetica, e alla sua produzione partecipiamo fra spirito di emulazione e tentativi di caratterizzare graficamente il nostro mondo condiviso.
Come quello materno, che ci predispone al dicibile e al fattibile, talvolta risparmiandoci l’insostenibilità della presenza sociale, allo stesso modo il grembo dei social media ci rassicura e impregna di nozioni, espressioni e vicende – un tempo risibili – che intende come rappresentative: auto-significative, non interpretabili. L’immagine facilita la trasmissione e rende avvezzi a comportamenti e modi di intendere il mondo indotti e resi slogan, sulla base dei quali si fossilizza la possibilità di ragionare tanto è veemente e rapido il loro profluvio.

Come nota il filosofo Byung-chul Han, essa non è solo riproduzione ma modello nel quale, se ci riguarda direttamente, ci rifugiamo «per essere migliori, più belli, più vivi». L’immagine fugace è il mangime dell’homo audiovidens e il dispositivo, che ha la funzione fordista di produrne e riprodurne e alla quale partecipiamo, il suo passepartout per il corrente senso del mondo (differente ad ogni parallelo), vera porta verso il significato. L’immagine sintetizza il meccanismo e cristallizza il significato, non più soggetto – per essere raggiunto – al divenire prolungato del confronto e quindi all’interazione delle parti.
Vede ma non guarda, sente ma non ascolta, audiovidens è fedele all’unico comandamento: scrolla e ti sarà dato, garantito dal movimento compulsivo del pollice, universale antropologico deputato all’instancabile enumerazione di notizie, volti, storie, suoni o semplicemente a svincolarsi brevemente dalla realtà, piatta e disimpegnata. Audiovidens è iperconnesso, aggiornato e iperstimolato ma sempre meno capace di comprendere: è nel mondo poiché lo filtra attraverso un oggetto al cui interno cova le aspettative rispetto alle quali modella il suo presente immaginandolo differente.

La rete avvicina e distanzia, omologando e differenziando sulla base di un valzer di stimoli cerebrali che avviluppa e pressurizza, narcotizzando o rassegnando. Fra questi input – per loro natura pungolanti, a-processuali – si annida da un lato l’esito di una negoziazione semantica permanente, anche davanti alla truce fattualità del reale, e dall’altro l’emersione di un solo modello di senso preconfezionato, che coinvolge il significato delle cose inteso sulla strada di Lewis (1972), ovvero nel loro valore di verità e nella denotazione che fanno di un certo mondo, dei mondi possibili, del mondo reale.
Contenere: riempire e impedire.
Contenuto deriva da contenere, che significa – appunto – implicare e comprendere fisicamente ma anche imporre un limite: frenare, condizionare, processi che sostanziano in gran parte una missione mediale in cui l’informare non si realizza se non sulla base della possibilità di manomettere le evidenze della realtà, persino quelle umanitarie. Sul trono della manipolazione siede lei, l’ideologia, la cui scure minaccia i significati del mondo distorcendone o capovolgendone la percezione, impedendone la comprensione.
In questi anni termini come guerra, riarmo, emergenza, allerta ed espressioni come traditori della patria e nemici dell’Occidente divengono il lessico dominante nella quotidianità dell’informazione, ora esibiti a mo’ di spauracchio e ora con automatica rassegnazione, come fossero rappresentativi di un nuovo stato delle cose che ci tocca accettare. Come se il loro significato non fosse storicamente dato ma ormai avesse un valore che solo la produzione audiovisiva può custodire e legittimare, ben lontano dallo sviluppo dei meccanismi sociali. E in questa ordinata entropia spadroneggiano i personaggi in cerca d’autore, più utenti che automi i quali si abbigliano di bandiere cangianti – ma sbiadite nel senso – e maneggiano vuoti concetti, ebbri di semiotica e privi di sostanza, contenenti senza contenuto ma pronti ad accoglierne di sempre nuovi.
Il significato è ciò che accomuna e insieme distanzia, anche con asprezza, ma rende vivi. Se viene scalzato e sostituito con modelli intercambiabili e applicabili a seconda del gusto di chi domina la comunicazione, e a causa della nostra connivenza, il germe del controllo si fa statuto anche nella rassicurante pretesa di essere nel mondo a suon di click, di gettoni di presenza inconsapevole.
Ciò che urge, insomma, è mitigare la compulsione audiovisiva della vanità per lasciare che il senso delle cose incrociate sedimenti, si costruisca attraverso la lettura, più letture, si rafforzi di esitazione e si consegni alla coscienza come consapevolezza del mondo che cambia noi presenti.


