Quando pensiamo a Damien Hirst, ci viene subito in mente lo squalo in formaldeide, il teschio tempestato di diamanti, i suoi puntini colorati seriali. Provocatore? Certo. Abile uomo d’affari? Senza dubbio. Ma questa volta Hirst alza ulteriormente l’asticella, non con una nuova provocazione su tela o un animale sezionato, ma con un progetto che sfida direttamente il concetto di tempo, di autenticità, e, va detto, di immortalità artistica. Il celebre artista britannico ha infatti annunciato che, dopo la sua morte, si potranno continuare a produrre opere a suo nome seguendo un dettagliatissimo manuale d’istruzioni. Per due secoli.
In un’intervista al The Times, Hirst ha svelato il suo progetto: 200 quaderni, uno per ogni anno successivo alla sua scomparsa, ognuno dei quali conterrà le specifiche per la creazione di un’opera d’arte firmata Damien Hirst, accompagnata da un certificato di autenticità che autorizzerà la sua produzione e vendita. Il primo sarà attivabile un anno dopo la sua morte, l’ultimo due secoli dopo. Un testamento artistico in slow release, ovvero un’operazione che sembra pensata per prolungare il brand Hirst ben oltre i limiti biologici del suo creatore, trasformando l’artista in un marchio che continua a “produrre” molto dopo il suo ultimo respiro.
Tra le idee che potrebbero comparire in questi quaderni c’è anche un vecchio progetto mai realizzato: un maialino immerso nella formaldeide, concepito nel 1991 ma mai prodotto. Se questo progetto dovesse finire, ad esempio, nel libretto numero 145, verrebbe realizzato solo 145 anni dopo la morte dell’artista, ma datato comunque 1991, anno dell’ideazione.

Qui Hirst gioca con la sua ossessione di lunga data: la separazione tra ideazione e realizzazione. Non è un mistero che molte delle sue opere, formalmente datate anni Novanta, siano in realtà state fisicamente prodotte ben dopo il 2010. La concezione dell’opera, sostiene Hirst, è l’atto creativo fondante. Il resto — l’esecuzione materiale — può avvenire anche secoli dopo, purché rispetti fedelmente le sue istruzioni.
Non è difficile intuire le polemiche che questa idea sta già generando nel mondo dell’arte. Dove finisce l’autorialità? Può un’opera creata da mani altrui, seguendo indicazioni postume, essere considerata ancora “un Hirst”? Ma, a ben vedere, non è un salto poi così enorme rispetto a quello che già accade. Molti grandi artisti concettuali (da Sol LeWitt a Yoko Ono) hanno affidato a istruzioni scritte l’esecuzione delle loro opere. La differenza, semmai, è che Hirst applica questa logica a un orizzonte temporale spaventosamente lungo e, soprattutto, a un mercato che potrebbe ancora macinare milioni anche senza di lui.
Dietro l’apparente follia visionaria di questo progetto si cela anche un’implacabile lucidità economica. Hirst, che non ha mai fatto mistero di considerare l’arte anche un business, ha dichiarato al Times: “Sento che c’è una grande svolta nel mercato dell’arte, con tutta l’incertezza che c’è nel mondo. Bisogna stare al passo col mercato ed evitare di fare un sacco di lavori che non si vendono mai”
In altre parole: se l’arte è merce, tanto vale progettare una filiera produttiva a prova di estinzione. Con questi libretti, Hirst assicura ai suoi eredi — e ai suoi collezionisti — un flusso costante di “nuove” opere firmate, in grado di alimentare aste, mostre e capitali ben oltre il limite naturale della sua carriera. Il brand Hirst diventa così simile a un’azienda quotata, dove il nome è più importante dell’individuo che l’ha fondato.
C’è però anche un rischio evidente: la serializzazione estrema. Quando la creazione artistica diventa un protocollo replicabile a distanza di decenni, quanto resta dell’arte e quanto del marketing? Se qualcuno nel 2175 seguirà il libretto numero 150 e produrrà un nuovo “Hirst”, starà davvero creando un’opera d’arte o semplicemente assemblando un prodotto in franchising?
È la critica più frequente che già da anni viene rivolta a Hirst e, più in generale, al mercato dell’arte contemporanea. Un mercato che spesso sembra premiare più la firma che il gesto creativo. Ma forse è proprio questo il messaggio (consapevole) di Hirst: in un’epoca dominata dal valore del brand, l’identità dell’artista è ormai un bene commerciabile a prescindere dalla sua presenza fisica.
Alla fine, Damien Hirst sta portando alle estreme conseguenze proprio quella lezione che Andy Warhol aveva anticipato con la sua Factory: l’arte come produzione seriale, l’autore come imprenditore dell’immaginario collettivo. Solo che, nel caso di Hirst, la fabbrica non chiuderà nemmeno dopo la sua morte. Continuerà a funzionare a pieno regime per almeno due secoli, se gli eredi e i collezionisti vorranno.
Un gesto di vanità? Forse. Un’operazione cinica? Probabile. Ma anche una straordinaria riflessione sulla natura stessa dell’arte contemporanea e sul nostro rapporto con l’autenticità. Se l’opera d’arte è l’idea, e l’esecuzione non è che un dettaglio tecnico, allora Hirst potrebbe aver trovato il modo di sfidare la morte senza nemmeno doversi affidare all’intelligenza artificiale.
E in fondo, cosa c’è di più contemporaneo di un artista che progetta la propria immortalità editoriale?
Interessante. Mi fermo qui. Però ogni artista è libero di progettare le sue opere a prescindere dal tempo. Il tempo sarà garante? Come farà l’artista a garantire tale continuità produttiva e il piacere di “creare e realizzare” ciò che lui ha testamentato sarà il dilemma: e’ solo una questione di soldi.
Stuzzicante! Sono certa che inizierà una corsa alle idee…immortali!