Nulla di più decadente nella vita che la gioia dei bambini. È nello stato di bene assoluto, infatti, che germoglia la condanna all’infelicità degli adulti. Ed è questa la condizione che racconta – con gesto felicissimo, per converso – l’arte di Francesco De Molfetta, artista che finanche ai bambini, quasi, è noto come “il Demo”. Un nome che suona bene comparato al suo aspetto renegade, da ultimo buscadero, o da artista rock, meglio ancora, prima che da artista Pop, quale è, a tutti gli effetti di legge, e magari fuorilegge. Naturalmente parliamo delle leggi dell’arte contemporanea e delle relative, eventuali trasgressioni.

Se trasgredisce, il Demo, lo fa con consapevole, raffinatissima, quasi imprendibile perizia d’artista puro: egli descrive la decadenza camuffandola impareggiabilmente in visioni gioiose, installando scherzosi sketch, frammenti iperrealistici – ma collocati in altre dimensioni sensoriali –, scene immaginate nella realtà parallela dei compagni dei giochi dell’infanzia, nella vita paciosa e allegra dei teletubbies, di Winnie the Pooh, dei Puffi, dei mini-ponies e di Micky Mouse. Ma a queste garrule, saltellanti, innocue brigate il Demo assegna l’inedito incarico (almeno fino a quando l’artista non diviene demiurgo di senso, e gli riesce molto bene) di fissare all’osservazione attenta e cosciente la verità della vita vera. Che è raccapricciante, oscena, luguberrima, ripugnante, intrinsecamente decadente insomma.
L’attuale antologia di visioni plastiche della decadenza tradotta dai sogni innocenti di De Molfetta è in esposizione nella bella galleria milanese Area B, che ha sapientemente coordinato le sculture del nostro con tele pittoriche, quasi un contrappasso stilistico di ispirazione arboreo vegetale, logico, razionalista, magistralmente composto dall’ottimo Antonio Bardino (che tratteremo in un meritorio momento separato). Insieme, i due artisti, negli spazi della galleria, con proroga fino alla fine di maggio.

Tra le quinte rasserenanti delle pareti inquadrate con le pitture di Bardino sono disposti i diorami fantastici di De Molfetta, che assembla a parti di supporto in ceramica di Capodimonte altri materiali plastici, ferrosi, vernici tecniche e placche in ottone. Una trouvaille originalmente assai piacevole, che fa parte, all’origine appunto, del processo inventivo dell’artista sulla rappresentazione della decadenza in chiave umoristica, a cominciare, appunto dal reperimento dei supporti materici: l’ironia comincia dalla citazione tecnica dei preziosi manufatti settecenteschi napoletani, che nell’arrangiamento del Demo, molto riccamente cesellato nei dettagli, di ispirazione iperrealista, come detto, ma tuttavia si risolve in una evocazione che resta pur sempre onirica, che vagheggia i particolari di una realtà restituita attraverso il filtro del ricordo al risveglio da un sonno tormentato eppure seducente.

Il Demo demiurgo dei sogni proibiti della realtà esibisce scenette candide del funerale dell’orsetto attorniato dagli amici più cari, deceduto e decaduto, di piccoli cavallini color pastello avviticchiati in ammucchiate laide e pervertite, decadente se non caduca morale corrente, di orge slabbrate di cibo e sesso delicatamente proposte con vezzo cicisbeo, decadenza rococò di ogni tempo. E l’elegante urna cineraria di Moira degli elefanti, dalla rilucente decadenza, in controcanto al tetro paesaggio montano di un Topolino pietrificato sulla grotta di Merlino, per finire all’apoteosi di una ninfa suburbana in decadente riposo su un materassino galleggiante come un cadavere sulla putrida mota in una piscina disadorna, spumeggiante tra i rifiuti, e tuttavia circonfusa di sensualissima decadenza.

Il mondo tenebroso del pianeta Demo va in scena, ancora una volta, con i soliti – ma non consueti – effetti ottici spiazzanti: la messa a fuoco sui soggetti rivela idilli d’altri tempi, ma il controluce svela l’orrido dei tempi correnti.
In copertina: Francesco De Molfetta, I tub You, 2018, ceramica, cm 30x50x22.