“Siamo proprio sicuri che la bellezza universale esista davvero?”.
È questa la domanda che apre la mostra “Deep Beauty – Il dubbio della bellezza”.
La bellezza: un linguaggio mutevole, che cambia volto a seconda di chi guarda. In un mondo attraversato da diversi sguardi, nel corso del tempo essa smette di essere certezza e diventa interrogativo. Anche nell’arte, del resto, la bellezza non è mai stata una formula fissa: ha preso forme sacre, trasgressive, armoniose o disturbanti. Forse, più che un ideale da raggiungere, è uno specchio che riflette le tensioni del nostro tempo e il bisogno profondo di senso.
La mostra in corso al Mudec, a cura di Denis Curti, propone un percorso articolato in sei sezioni e presenta una sessantina di opere di grandi artisti e fotografi italiani e internazionali. Attraverso questi lavori, si indagano le molteplici declinazioni della bellezza e le sue trasformazioni contemporanee, dall’inizio del XIX secolo fino ai giorni nostri.

“Deep Beauty” è una riflessione sulle convenzioni sociali legate ai pregiudizi e all’identificazione rigida con principi formali dominanti, spiega il curatore. Nella sezione “Trasfigurazioni” questo concetto emerge in modo molto evidente. Tra gli altri, Rankin, Stern, Man Ray, LaChapelle, presentano corpi alterati, volti distorti, soggetti che spiazzano: l’osservatore si trova immerso in una realtà visiva che mina ogni certezza e mette in discussione i parametri convenzionali di riconoscibilità e verità.
Impossibile ad esempio non essere catturati da “Death Spikes” (John Rankin, 2016): il volto della modella è letteralmente costellato da punte acuminate, borchie. Un’immagine che spiazza, ma al tempo stesso affascina. È la rappresentazione di una bellezza forte, potente, seducente ed insieme dolorosa. In questa prima parte l’opera d’arte non accoglie, ma destabilizza e la fotografia rivela tutta la sua natura ambigua e manipolabile.

La sezione “Incanti” porta il tema della bellezza sul terreno dell’inconscio collettivo. Autori come Ugo Mulas, con opere come “Gioielli di Pietro Consagra” (1969), riescono a mostrare la profondità dell’animo umano, restituendo immagini che vanno oltre la mera rappresentazione. Qui l’incanto non è superficiale, è un luogo che permette di accedere a verità più sottili, catturare emozioni e svelare una tensione nascosta sotto la superficie. Un sogno che non è mai privo di inquietudine, c’è sempre un ambiguo senso di mistero.
Vedere ed essere visti è l’altro duplice aspetto esplorato con “Vertigini”, dove ci si concentra sulla seduzione come potere ma anche come fragilità e sull’instabilità del soggetto. “Labirinti” invece indaga il disorientamento come condizione simbolica ed esistenziale: l’ignoto non rappresenta una semplice mancanza di senso, ma si configura come territorio generativo, dove si annidano dubbi ma anche desideri di fuga e possibilità di rinascita. In questo contesto si muovono autori come Gian Paolo Barbieri e Helmut Newton, Steven Meisel e David Hockney, le cui opere creano un senso di irrequietezza ed interrogativi.
Pensiamo ad “Anima” (ToiletPaper, 2023): un occhio perfettamente truccato viene minacciato da una punta di una penna stilografica. La fotografia qui rompe gli schemi di chi osserva, generando contemporaneamente fascino ed inquietudine. Proseguendo, autori come Juno Calypso, Paolo Ventura, Carolyn Drake, non si limitano a proporre una visione soggettiva del reale ma vanno oltre: diventano creatori di nuovi immaginari. Con le loro opere non solo rappresentano il mondo ma lo rifondano, dando vita a “Nuovi mondi”, microcosmi alternativi, modellati secondo i propri codici, estetiche e ossessioni.

Bodhi Shola ad esempio presenta una fotografia che mostra un paio di gambe non depilate, coperte con collant: “un’ode”, come scrive l’artista, “alla sensualità femminile oltre i suoi stereotipi. Espressione di fantasie e desideri, in una celebrazione di femminilità”. La realtà viene quindi riscritta.
Si conclude infine con gli “Artifici”, dove Michelangelo Pistoletto, Marina Abramović, Alberto Maria Colombo, David Szauder, superano il limite della bidimensionalità della fotografia, avvicinandosi alla tridimensionalità della realtà. “Deep Beauty” è una mostra che pone le giuste domande. In un’epoca dominata dall’immagine che domina ed inganna, è forse proprio attraverso la sua ambiguità che possiamo riavvicinarci a una forma più autentica e perturbante di verità. L’arte diventa così strumento di dubbio e trasformazione.



