Nel dibattito pubblico, parlare di formazione terziaria in Italia significa quasi sempre parlare di università. È lì che si concentra l’attenzione mediatica, la massa degli iscritti, la storia istituzionale. Eppure, accanto a questi giganti accademici da 1,68 milioni di studenti e 81 atenei non telematici, esiste un universo più silenzioso ma in piena espansione: quello delle Istituzioni dell’Alta Formazione Artistica, Musicale e Coreutica (AFAM).
Un mondo che, secondo la Nota #10 dell’Osservatorio Talents Venture (ottobre 2025), rappresenta oggi il volto artistico e creativo della formazione italiana, con 91 mila iscritti, 163 istituti e una crescita del 51% nell’ultimo decennio. Numeri che raccontano un sistema tutt’altro che marginale, ormai parte strutturale della formazione superiore nazionale.
Le università restano giganti stabili (+5% di iscritti in dieci anni), ma le AFAM si muovono come reti in espansione, diffuse e capillari. Il loro baricentro è al Nord, dove si concentra il 45% delle istituzioni e il 46% degli iscritti, con Lombardia e Lazio come poli trainanti. Un dato che ribalta la percezione: le AFAM non sono solo laboratori di nicchia, ma presìdi culturali territoriali, più numerosi delle stesse università, con un’offerta formativa sorprendente — 8.320 corsi contro i 5.540 del sistema accademico.

Dentro questo mosaico convivono i Conservatori (46% delle istituzioni, 77% dei corsi) e le Accademie di Belle Arti (15% delle istituzioni, 11% dei corsi). Ma se i Conservatori dominano per quantità, sono le Accademie a esercitare una forza di attrazione più ampia: accolgono il 35% degli studenti, grazie al fascino trasversale del settore “Progettazione e Arti applicate” — che comprende design, cinema, arti multimediali — e che da solo raccoglie il 41% degli iscritti AFAM pur rappresentando appena l’11% dei corsi.
La sproporzione fra domanda e offerta diventa qui segno dei tempi: la formazione artistica non è più confinata al mestiere, ma cerca dialogo con le industrie culturali e creative, che nel 2023 hanno generato 104,3 miliardi di euro di valore aggiunto e oltre 1,5 milioni di occupati (Fonte: Fondazione Symbola – Unioncamere – Deloitte, Io sono Cultura 2024).

Il report evidenzia poi un dato cruciale: l’internazionalizzazione. Gli studenti stranieri sono il 16% degli iscritti AFAM, una quota quasi tripla rispetto all’università (6%). La metà proviene dalla Cina, seguita da bacini come Iran, Romania e Albania. È un indicatore di attrattività, ma anche di una precisa geografia culturale: le Accademie italiane restano tra le più desiderate al mondo, complici l’eredità del “Made in Italy” e la capacità di coniugare tradizione e sperimentazione. La Lombardia, ancora una volta, si conferma polo magnetico: ospita quasi quattro studenti stranieri AFAM su dieci.
Eppure, dietro la crescita, il report di Talents Venture invita a leggere le asimmetrie. La distribuzione territoriale resta sbilanciata, l’equilibrio tra offerta musicale e artistico-visiva instabile, e la governance ancora frammentata. L’AFAM appare come un sistema in costruzione permanente, più dinamico e flessibile rispetto all’università, ma anche più esposto alla precarietà strutturale.
È qui che il linguaggio dei numeri si apre a una riflessione culturale più ampia. L’università italiana forma la competenza in senso più prettamente “tecnico”; l’AFAM, invece, forma la sensibilità — ma questa sensibilità non è ancora pienamente riconosciuta come valore produttivo. L’arte continua a essere trattata come eccezione, non come infrastruttura di pensiero e innovazione.
Nel decennio in cui l’Italia si definisce “cultural power” e discute di industrie creative come volano economico, le AFAM rappresentano un laboratorio di futuro. Il loro compito non è solo insegnare a dipingere, suonare o danzare, ma tenere vivo un linguaggio che connetta educazione e immaginazione, mestiere e ricerca. In questo senso, i dati del report non sono solo indicatori quantitativi: sono il ritratto di un sistema che ha smesso di essere periferia, ma non è ancora centro.
Talents Venture chiude la propria analisi con una domanda aperta: “Che volto avrà questo sistema nel prossimo decennio?” Forse la risposta non sta nei numeri, ma nella capacità dell’Italia di riconoscere le AFAM come infrastruttura culturale nazionale — ponte fra università e industria creativa, fra formazione e cittadinanza estetica. Se il Novecento ha avuto le università come motore della conoscenza, il XXI secolo potrebbe trovare nelle AFAM il proprio laboratorio di immaginazione collettiva.


