E ora tutti possiamo fare Arte Algoritmica: la Rivoluzione Accessibile del Codice Creativo

Piattaforme come Claude, con le nuove funzionalità Artifacts (2025), hanno introdotto la possibilità per chiunque di generare arte algoritmica semplicemente descrivendo ciò che si desidera creare. Ma cosa significa esattamente “arte algoritmica” e perché rappresenta qualcosa di radicalmente diverso?

L’arte algoritmica: un’opera che non finisce mai

Nel vasto universo dell’arte digitale, l’arte algoritmica occupa uno spazio unico.
La differenza fondamentale non sta solo nel processo di creazione, ma nella natura stessa dell’opera.
Mentre un’immagine creata con Photoshop, una fotografia digitale o persino un’opera generata da Midjourney possono essere salvate, stampate e “congelate” in uno stato definitivo, l’arte algoritmica esiste come processo in continua evoluzione.
Non è un prodotto finito da fruire passivamente, ma un sistema vivo che genera continuamente nuove varianti.
Questa è la differenza fondamentale: l’arte algoritmica è processuale, non oggettuale. Lo spettatore non fruisce di un prodotto finito, ma partecipa a un processo generativo che non si conclude mai. Certo, si possono generare stampe da singoli momenti dell’esecuzione, ma ogni stampa sarebbe solo un’istantanea di un flusso continuo, come fotografare un’onda del mare.

Radici storiche: dall’arte cinetica all’algoritmo

L’idea di un’arte che cambia, che reagisce al contesto, non nasce con il computer.
L’arte cinetica degli anni Cinquanta introduceva il movimento reale nelle opere.
Michelangelo Pistoletto, con i suoi Quadri Specchianti (dal 1962), portò questa idea più avanti: dipinti su superfici specchiate che incorporavano lo spettatore e l’ambiente nell’opera stessa. Ogni visione era unica.
Jeff Koons, con la serie Gazing Ball (dal 2013), ha ripreso questo concetto: riproduzioni di capolavori classici con una sfera specchiante blu che riflette lo spettatore e l’ambiente.

L’arte algoritmica porta questa intuizione nell’era digitale, ma la radicalizza: non è più solo il contesto esterno a cambiare l’opera, ma il processo interno stesso è progettato per non ripetersi mai. È come se i quadri di Pistoletto non solo riflettessero lo spettatore, ma si ridipingessero continuamente secondo regole che l’artista ha stabilito.

Max Bense e i pionieri degli anni Sessanta

L’arte algoritmica nasce negli anni Sessanta grazie a pionieri come Vera Molnár e Georg Nees, ma il contesto filosofico è segnato da Max Bense, filosofo tedesco che formalizzò l’idea che l’artista possa concepire un processo piuttosto che un’opera finita.
Bense teorizzava che l’artista dovesse definire regole generali (colori, forme geometriche, parametri di variazione), affidando poi all’algoritmo la generazione concreta dell’opera. In questo modo, creatività, errore, sorpresa e caos entravano nella pratica artistica come elementi strutturali.
La prima esposizione storica di computer art, Generative Computergrafik, si tenne a Stoccarda nel 1965 con Georg Nees.
Nel 1968, Vera Molnár ottenne accesso a un mainframe IBM e a un plotter, avviando le prime serie di disegni geometrici in cui l’algoritmo decideva come variare composizione e colore secondo regole e variabili casuali definite dall’artista.
Il processo, la successione di scelte ed eventi generati, diventava parte integrante sia dell’autorialità che della fruizione dell’opera. Macchina, codice e caso erano considerati “co-autori” di ogni risultato.

Il nuovo Rinascimento creativo

Ogni epoca artistica è stata definita dai suoi strumenti.
L’olio nel Rinascimento, la fotografia nell’Ottocento. Oggi l’algoritmo rappresenta una rivoluzione altrettanto profonda. Il programmatore diventa artista, l’artista assume il ruolo di curatore del codice. L’opera non è più un’espressione singola, ma un dialogo tra dati, algoritmi e intuizioni umane.
L’artista diventa curatore di processi, programmatore di possibilità e testimone dell’imprevisto.

L’arte si apre a una moltitudine di voci e visioni. Con piattaforme conversazionali come Claude Artifacts, la barriera si abbassa ulteriormente: non serve nemmeno conoscere la sintassi di programmazione. Si può semplicemente descrivere l’idea e vedere il codice generativo prendere vita.
Tutti possono essere artisti? Forse. Su cosa sia o non sia “ufficialmente” arte, ne ho parlato in un articolo (link).

Gli strumenti: da Processing all’NFT

Se vi state chiedendo come si crea concretamente arte algoritmica, eccovi accontentati.
Processing, creato nel 2001 da Casey Reas e Ben Fry, fu progettato per insegnare la programmazione in un contesto visivo, con una grande comunità e documentazione estesa.
Ha dimostrato che era possibile creare un linguaggio pensato per artisti, non per ingegneri: il primo vero ponte tra programmazione e arte.

p5.js, sviluppato da Lauren McCarthy nel 2014, porta Processing sul web, rendendo la programmazione accessibile a chiunque.
La vera rivoluzione? Serve solo un browser, con l’editor online gratuito. Si apre la pagina, si scrive codice, si vede il risultato.
Oggi Claude Artifacts può integrare sketch basati su p5.js: basta scrivere un prompt.

Per chi vuole spingersi oltre, OpenFrameworks (dal 2005) è un toolkit open-source in C++ ideale per installazioni in tempo reale ed exhibit interattivi. È lo strumento preferito da molti professionisti per installazioni museali e commissioni importanti.
Il mondo del creative coding offre anche Three.js per grafica 3D nel browser, TouchDesigner per ambienti visuali e performance, e Hydra per live coding video.

L’arte algoritmica ha trovato anche un terreno fertile nel mondo degli NFT, creando un interessante paradosso: opere che per natura sono processuali e infinite vengono “cristallizzate” in token unici.
Art Blocks è una delle piattaforme più famose per arte generativa NFT e nel 2021 ha registrato circa 1,4 miliardi di dollari di volume di vendite complessivo, un impatto economico enorme anche se i ricavi diretti agli artisti ne rappresentano solo una parte.
L’opera viene generata randomicamente al momento dell’acquisto tramite smart contract: è l’imprevedibilità portata al massimo livello — anche l’artista non sa esattamente cosa verrà creato.
Un acquirente colleziona un sistema, non un’immagine specifica.

Artisti che ridefiniscono la creatività

Vale la pena citare alcuni protagonisti che stanno ridefinendo i confini della creatività computazionale.
Refik Anadol, artista turco, ha trasformato il dato in esperienza sensoriale. Le sue installazioni, come Unsupervised al MoMA (2022-2023), sono paesaggi visivi generati da algoritmi che rielaborano archivi di immagini e memorie collettive.

Sougwen Chung dipinge insieme a robot collaborativi programmati per replicare e reinterpretare i suoi gesti: le sue opere nascono dal dialogo tra imprevedibilità umana e precisione algoritmica. Il suo lavoro mette in questione l’idea romantica dell’artista solitario: cosa succede quando il tuo collaboratore è una macchina? Chi è l’autore quando umano e robot creano insieme?
Tornando ai pionieri, Vera Molnár programmava il computer per generare infinite variazioni secondo regole precise ma con elementi casuali. Invece di un singolo disegno perfetto, creava “famiglie” di opere.
Georg Nees, con la sua mostra del 1965, presentò lavori che sembravano scarabocchi ma erano il risultato di processi algoritmici calibrati con precisione matematica: arte nata dal codice, non dal pennello.
Il collettivo Obvious ha creato Portrait of Edmond de Belamy, venduto all’asta da Christie’s nel 2018 per 432.500 dollari, segnando il momento in cui il mercato dell’arte tradizionale riconobbe il valore dell’arte algoritmica.
Jeff Davis esplora l’arte generativa introducendo il caso come parte attiva del processo creativo, mentre Rafael Lozano-Hemmer usa OpenFrameworks per installazioni interattive su larga scala che coinvolgono gli spettatori in modi unici e immersivi.

Il futuro che ci aspetta

Esperienze immersive e opere generative sempre più diffuse dimostrano come sia possibile creare ambienti dinamici che dialogano con il pubblico in tempo reale.
Musei che cambiano in base ai visitatori, opere che non sono mai le stesse due volte, esperienze che sfumano il confine tra osservatore e creatore.
Chi è l’autore di un’opera creata dall’algoritmo? Qual è il confine tra creatività umana e algoritmica?
Forse queste domande sono proprio il punto. L’arte algoritmica ci costringe a ripensare: cosa significa “finire” un’opera quando il processo non si ferma mai? Cosa significa possedere un sistema invece che un oggetto?
La vera rivoluzione trasforma lo spettatore da consumatore passivo a partecipante attivo. Con un browser e curiosità, potete diventare creatori.
L’arte algoritmica non sostituisce l’arte tradizionale, la affianca: è un nuovo modo di pensare all’arte come processo vivo, non come prodotto finito.

Elaborazioni algoritmiche: Algorithm Art generata con Claude.AI dalla redazione Artuu.it

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