Eau de Eau. Max Papeschi (con Arianna Bonucci) mette il dito nella piaga dell’emergenza idrica. Tra impegno e ironia: “L’arte? Una finzione ben orchestrata”

Lo ammetto, ci sono cascato anch’io. Come molti altri, ho abboccato in pieno all’amo teso da Max Papeschi per il suo ultimo progetto, questa volta realizzato in collaborazione con Arianna Bonucci, presentato nel bellissimo ed elegantissimo spazio Parco, a Milano, pieno zeppo per l’occasione non solo di elementi che facevano pensare immediatamente a una vera serata di gala per la presentazione di un qualche nuovo prodotto (giovani ed eterei camerieri in guanti bianchi che servivano da bere e da mangiare, altrettanto giovani e impeccabili hostess dotate di un’elegante divisa color acqua marina che offrivano un assaggio di un nuovo profumo all’ingresso, grandi boccette di profumi allestite in packaging degni di una grande azienda del lusso posizionate qua e là per la sala, pubblicità del medesimo profumo stampate su gigantografie e in loop su megaschermi sparsi in giro per lo spazio, e, naturalmente, la crème della mondanità milanese riunita per l’occasione a bere, mangiare e chiacchierare amabilmente).

Ebbene sì, dicevo: ci sono cascato. Arrivato all’ingresso dello spazio, ho infatti offerto volontariamente il polso alle hostess che si offrivano di farmi provare una goccia del detto profumo (“sarà lo sponsor dell’iniziativa?”, ho pensato tra me e me), e ho proceduto, incurante, verso l’ingresso. È vero: un barlume di dubbio, una stranezza, mi è balzata per un momento in testa, nel leggere il nome del profumo, che io pensavo ancora non fosse altro che lo sponsor dell’iniziativa. Eau de Eau?, ho chiesto, con tono un po’ stupito e un po’ divertito, alla hostess che mi porgeva il flaconcino. Eau de Eau, mi ha risposto, enigmatica, la giovane. Non ci ho più pensato. E così ho proseguito verso quella che si sarebbe rivelata come una ben congeniata burla tesa a tutto il pubblico intervenuto, nella quale anch’io, come gli altri, sono cascato come un allocco.

Le hostess schiuerate davanti allo spazio Parco con le boccette di Eau de Eau Al centro il Communication Manager Federico Guiscardo con Arianna Bonucci

Bisogna dirlo subito: come in tutti gli scherzi ben congeniati, anche quest’ultimo progetto di Papeschi necessitava di alcune premesse di base perché potesse funzionare veramente. Intanto, determinante, l’effetto-sorpresa: dunque, nessun pettegolezzo, nessuno spoiler uscito dallo studio-officina dell’artista, da mesi e mesi chiuso assieme ad Arianna, fotografa e regista con una buona conoscenza delle strategie del marketing alle spalle e un affiatato pool di assistenti e tecnici di diverse discipline, a rovinare l’effetto. Poi, la credibilità della messinscena. Una regia perfetta, tutto studato nei minimi dfettagli, dalla professionalità dei video e delle foto della campagna alla divisa delle hostess. Nessuna sbavatura, nessuna caduta di stile.

In questo modo, anch’io, come altri, non ho fatto troppo caso al fatto che il profumo non sapesse assolutamente di niente, e che questo dettaglio facesse il paio perfetto con quello strano titolo, Eau de Eau. È solo dopo qualche minuto, vedendo la faccia sorridente e sorniona di Max, all’ingresso, che mi diceva: “non penso di doverti spiegare niente, vero?” (mai frase fu meno aderente al vero, e nello stesso tempo più che mai esplicativa), che il mio cervello ha messo improvvisamente insieme (alla buon’ora, direte voi: ma avreste dovuto esserci per capire!) i tasselli del puzzle: Eau de Eau, il profumo che non sa assolutamente di niente, la grande campagna pubblicitaria (con tanto di testimonial d’eccezione, la scrittrice Barbara Alberti), le boccette così pomposamente simili a vere e proprie opere d’arte, e il fatto che fossimo lì proprio per scoprire il nuovo, segretissimo progetto di Papeschi (realizzato assieme, non mi stancherò di dirlo perché è giusto dare a Cesare quel ch’è di Cesare, ad Arianna Bonucci); e, tuttavia, nessuna (nessun altra) opera d’arte a riempire l’ambiente

Barbara Alberti con la boccetta Eau de Eau

Ebbene, come avevo fatto a non capirlo subito? Ma certo, Eau de Eau, il profumo che non è un profumo, ovvero acqua, null’altro che acqua, confezionata a regola d’arte e venduta a peso d’oro: era proprio quello, che diamine!, l’ultimo progetto, l’ennesima provocazione dell’eterno enfant prodige della scena artistica italiana, l’artista dalla creatività più caustica, mediatica e intelligentemente disturbante che ci sia dato oggi di vedere in Italia. Già ambasciatore del Ministero della Propaganda della Corea del Nord (Welcome to North Korea, 2016), poi improbabile archeologo alieno intento a ricostruire l’estinzione umana a colpi di nani da giardino ricostruiti con tanto di Intelligenza Artificiale (Extinction, 2024), ma precedentemente artista “venditore di svastiche” a peso d’oro, scrittore autobiografico di successo (Vendere Svastiche e Vivere Felici, Sperling & Kupfer 2014), inventore di altri artisti funambolici e pazzi quanto e più di lui assieme a un altro genio dell’immaginazione fuori dalle righe, lo scrittore Massimiliano Parente (MAX vs MAX, 2018); e, prima ancora, giooso e impenitente rimescolatore di iconografie e di riferienti tra i più disparati; ebbene, oggi Papeschi passa a un altro tema tanto serio e drammatico quanto passibile di essere trattato con la disturbante leggerezza e con la conturbante capacità di mescolare vero e falso, verosimile e improbabile, gioco e dramma in un unico contenitore formale e concettuale che ha sempre contraddistinto i suoi cicli di lavori: l’acqua, appunto, ma più in generale le risorse del pianeta, il loro sfruttamento da parte di poche aziende multinazionali, l’abitudine della società contemporanea di fare marketing su qualunque cosa, la corsa alla credulità della gente…

Eau de Eau è infatti un progetto multifome gestito su diversi livelli e con diversi linguaggi, una complessa e articolata macchina spettacolare, un’installazione liquida, surreale, semiseria e semidrammatica. Per questo, abbiamo voluto andare a intervistare i suoi creatori, Max Papeschi e Arianna Bonucci. Abbiamo parlato di acqua, certo, ma anche di etica, di futuro, di speranza, di arte, di attivismo, di dramma idrico e di ironia.

Arianna Bonucci e Max Papeschi

Arianna, Max, cominciamo dall’inizio: Come nasce il progetto “Eau de l’eau”?

Max Papeschi: Il progetto è nato da una proposta che mi ha fatto l’anno passato Love Therapy, il brand fondato da Elio Fiorucci. Mi hanno chiesto se volevo ideare qualcosa per loro. All’inizio non avevo ben chiaro cosa potesse venire fuori, ma poi ho pensato a un’immagine che avevo creato per la rivista Millennium, per la quale da maggio 2022 curo una rubrica fatta solo di immagini, senza parole. Quell’immagine si intitolava proprio Eau de Eau, e rappresentava appunto una linea immaginaria di acqua che veniva venduta come un prodotto di lusso. Così ci siamo chiesti, con Arianna: perché non creare un vero-finto profumo, un’Eau de Eau con tanto di boccetta disegnata da un designer e prodotta artigianalmente, campagna pubblicitaria, testimonial, linea grafica e relativa strategia di marketing? L’idea era appunto di portare all’estremo il gioco, fino a farlo sembrare vero.

Max Papeschi Eau de Gaza

Anche in passato, tu avevi lavorato sull’idea del profumo, immaginando una linea paradossale di essenze ispirate ai peggiori dittatori della storia…

Max Papeschi: Sì, c’era ad esempio il profumo Hitler n.5, chiara parodia di Chanel n.5, poi il profumo Dux, il profumo Stalin e anche, tragicamente attuale, l’Eau de Gaza, prodotta in Israele… Questa volta, però, con Arianna abbiamo pensato di fare il salto di qualità, superando la semplice fase della costruzione di un’immagine, che si rivela subito nella sua falsità, ma costruendoci invece intorno una campagna marketing che sembrasse il più possibile realistica, esattamente come si fa quando si lancia un vero prodotto…

Arianna Bonucci: Sì, l’idea ci ha subito divertito ed entusiasmato, e ci siamo messi al lavoro, coinvolgendo molte persone, di modo che Eau de l’eau si è piano piano trasformato in una sorta di progetto collettivo, che ha coinvolto professionisti e figure di spicco provenienti da ambiti molto diversi, dall’arte alla moda, dalla musica al design alla danza.

Eau de Eau Foto Thomas Wiedenhofer

Ma perché proprio l’acqua?

Max Papeschi: Perché l’acqua è il bene più prezioso e anche il più minacciato. La crisi idrica in molte parti del globo è un drammatico dato di fatto, ma io non volevo raccontarla in modo retorico o pedagogico. Quello che faccio da sempre è mettermi dalla parte dei cattivi, del potere, della distopia che ci aspetta — e poi spingere tutto all’estremo. Così, ho immaginato di essere il direttore creativo di una multinazionale del futuro che, in un mondo dove l’acqua è praticamente scomparsa, decide di imbottigliare l’ultima acqua pura rimasta e venderla come bene di lusso. Una goccia di speranza trasformata in un feticcio per ricchi. Nel progetto Eau de Eau io e Arianna siamo proprio questo: i director di una corporation che promuove, con tutto il linguaggio patinato della pubblicità, un prodotto che rappresenta in realtà l’ingiustizia più totale. Quindi, in sostanza, come ho fatto altre volte nel mio lavoro, per denunciare un aspetto disturbante o distopico della realtà, anziché gridare allo scandalo, ho finto di mettermi dalla parte dei cattivi provando a rappresentarlo dal loro punto di vista.

Mi viene in mente una celebre frase di Bertolt Brecht, che diceva: Ci sedemmo dalla parte del torto perché tutti gli altri posti erano occupati”. In qualche modo il tuo lavoro ha sempre seguito questa logica: è politicamente scorretto, sì, ma non solo per il gusto di provocare. Mentre tanti si affannano a distinguere il buono dal cattivo, a schierarsi dalla parte giusta, tu invece scompigli le carte e ti metti, o fingi di metterti, dalla parte dei cattivi per denunciarne i comportamenti…

Max Papeschi: Sì, per raccontare il male, mi viene più naturale immedesimarmi in chi lo compie, piuttosto che costruire una narrazione edificante. Lo trovo anche più interessante, perché quando ti metti dall’altra parte — togliendo ogni giudizio morale — riesci forse a capirla meglio. Ti chiedi: “Se io pensassi davvero così, cosa farei?” E allora sì, venderei l’acqua a peso d’oro, fregandomene dei paesi poveri. “Noi dobbiamo fatturare, il resto non ci importa”, è il pensiero aberrante che ci sta dietro, e sulla base di questo vengono compiuti i peggiori crimini. Personalmente, mi viene più facile agire così, e, devo ammetterlo, mi diverte anche molto di più. D’altra parte non bisogna dimenticare che io vengo dal mondo dello spettacolo, e oltre che il regista e l’autore ho fatto anche l’attore: interpretare un ruolo, persino il più spietato, è per me una forma di libertà. E credo che sia il modo più efficace per far passare certi messaggi. E anche il modo in cui viene fatto, con la finta campagna pubblicitaria e la linea di prodotti perfettamente credibili e realistici, è del resto perfettamente coerente con il mio lavoro precedente: l’orrore travestito da bellezza, la critica sociale che passa per la superficie scintillante delle cose…

Valentina Vernia Foto Roberto Polillo

Arianna, qual è stato invece il tuo ruolo nella realizzazione del progetto?

Arianna Bonucci: Io mi sono occupata dell’intera parte organizzativa e produttiva. Abbiamo girato i video in diverse location, curato ogni dettaglio del casting, lavorato con stylist, artigiani, costumisti. È stato un lavoro di squadra molto intenso, ma anche molto divertente. Ogni elemento – dalle bottigliette allestite nelle installazioni, alle clip video, ai manifesti pubblicitari – è stato pensato come parte di un unico sistema di comunicazione. Un sistema che prende in giro i meccanismi del marketing contemporaneo, ma che li utilizza anche, li mette in scena con gli stessi strumenti utilizzati nei lanci dei “veri” prodotti. Ecco allora che abbiamo ad esempio chiamato un testimonial d’eccezione, la scrittrice Barbara Alberti. Lo spot video, che ho diretto insieme a Giorgio Angelico per Round, ha invece come protagonista la ballerina Valentina Vernia (in arte Shades of Banana), ritratta mentre il fango essiccato che la ricopre si sgretola con l’arrivo della pioggia, in una metafora visiva sulla disidratazione del pianeta. La colonna sonora è firmata dal maestro d’orchestra austriaco Sascha Goetzel, mentre le foto di backstage sono di Roberto Polillo. Le foto di still life portano la firma di Thomas Wiedenhofer, mentre l’allestimento multimediale, con opere fisiche e tele retroilluminate, è stato realizzato da QuadrusLight. Abbiamo anche attivato una collaborazione concreta con WAMI, che grazie al progetto ha realizzato nuovi punti d’accesso all’acqua potabile in Nicaragua. Infine, con Raffles Milano abbiamo coinvolto un gruppo di studenti nella creazione di abiti ispirati alla boccetta, con la supervisione del couturier Renzo Catoni. E con Tria, piattaforma olografica, abbiamo presentato Planète Terre, un pianeta dorato che ruota nel vuoto come monito e simbolo. Un’alleanza tra estetica, tecnologia e responsabilità, che ha visto coinvolti videomaker, stylist, fotografi, attrici, professionisti e performer, e due giovani curatori: Alisia Viola e Tommaso Venco

Ma non ci sono solo la campagna pubblicitaria, i video, i testimonial. C’è anche il prodotto, che, benché non contenga altro che acqua, ha un prezzo reale – quello appunto di un’opera d’arte – ed è messo in vendita veramente: mi risulta, anzi, che le prime edizioni siano già andate a ruba…

Arianna Bonucci: Assolutamente. La boccetta è impreziosita da un tappo dorato a forma di pianeta Terra, un vero gioiello realizzato da Sebastiano D’Augusta. È un’opera a tutti gli effetti, con un fondo fortemente ironico e concettuale come tutte le opere di Max, ma anche un prodotto estremamente sofisticato e raffinato dal punto di vista delle qualità dei materiali e delle lavorazione.

Max, stavolta però, nonostante la serietà del messaggio che trasmetti, hai abbandonato la politica in senso stretto — niente più dittatori, né guerre, niente Hitler né Kim Jong-un. Hai virato verso la crisi ambientale…

Max Papeschi: Sì, è vero. Un po’ perché, onestamente, su quel fronte avevo già detto molto. Ho esplorato nazismo, comunismo, fascismo, Corea del Nord, Russia… quei personaggi storici li ho già passati in rassegna, anche più di una volta. E poi — diciamolo — siamo in un momento storico in cui la politica ha superato la satira. Quando Trump pubblica sui suoi social un video fatto con l’intelligenza artificiale in cui si autocelebra come nuovo Papa o come guerriero di “Star Wars” con tanto di spada laser rossa come quella dei cattivi, capisci che non c’è più spazio per la parodia. Sono già andati oltre ogni limite da soli. Che fai, gli metti un’uniforme da nazista? È superfluo, e soprattutto non avrebbe più alcuna forza.

Insomma, c’è il famoso cortocircuito in corso per cui la realtà ha superato la fantasia…

Max Papeschi: Certo. E per chi fa il mio lavoro, questo rende tutto meno stimolante. I potenti oggi sono così grotteschi da sembrare usciti dal bar di Star Wars. È difficile aggiungere qualcosa con l’ironia, quando loro stessi sembrano caricature viventi. È qui che mi sono detto: perché non cambiare campo, pur restando dentro una riflessione politica? Perché anche parlare di risorse, oggi, e di come vengono distribuite — soprattutto l’acqua — è assolutamente una questione politica.

Ora che il progetto è stato lanciato, come pensate di svilupparlo in futuro?

Arianna Bonucci: L’idea è di trattarlo esattamente come un vero profumo. Questo significa immaginare un percorso simile a quello dei brand reali: pop-up store in varie città, sia in Italia che all’estero, con tutto l’apparato visivo del marchio Planète Terre — dai cartonati pubblicitari ai visual accattivanti, come se stessimo davvero promuovendo una fragranza esclusiva. Ci piacerebbe che, dopo uno o due anni — anche secondo le tempistiche canoniche del marketing — si lanciasse una nuova edizione, magari con qualche variazione nel design della boccetta, un nuovo testimonial, una nuova campagna video. Trattarlo, insomma, davvero come una linea di prodotti reali in evoluzione. È chiaro che, dopo il primo evento, il “segreto” è stato svelato, e l’effetto sorpresa è andato a farsi benedire. Ma resta comunque un serissimo gioco collettivo, e dal punto di vista concettuale e formale il progetto non perde consistenza, ma, anzi, semmai si rafforza.

Eau de Eau Foto Thomas Wiedenhofer

E se un domani il “profumo” diventasse davvero virale? Magari con milioni di persone che vorrebbero avere la loro brava bottiglietta di “Eau de Eau” come gadget da pochi euro? Ve lo immaginate possibile?

Arianna Bonucci: Se accadesse, ovviamente ne saremmo felici. E probabilmente funzionerebbe anche. Abbiamo già pensato a come lavorare a una produzione più ampia, se dovesse servire. Ma quello che ci interessa davvero non è vendere un prodotto: è far riflettere, mettere il dito nella piaga, rompere il silenzio su determinati temi. E se davvero il progetto dovesse diventare virale, vorremmo inevitabilmente che una parte dei proventi venisse devoluta in beneficenza. Sarebbe bello trasformare questo progetto così ironico e paradossale in qualcosa di concreto, che possa servire a qualcuno.

Max Papeschi: Sì, l’eventuale diffusione di un progetto come questo sarebbe fondamentale che mantenesse una finalità concreta, non solo simbolica. Perché fin dall’inizio ci siamo detti: non possiamo fare la morale sul tema dell’acqua e poi essere i primi a non muovere un dito. Non siamo un’ONG, non avevamo né gli strumenti né l’esperienza per attivare progetti concreti. Ma abbiamo avuto la fortuna di incrociare WAMI – Water With a Mission, un’organizzazione che fa davvero questo di mestiere, e che ha sede proprio accanto al nostro studio. WAMI ha attivato per noi un progetto in Nicaragua, installando rubinetti e portando acqua potabile a due famiglie in una delle zone più colpite dalla crisi idrica. Una goccia nel mare, certo — ma una goccia vera. In cambio, noi abbiamo dato la visibilità di un evento con seicento persone, per un brand che ha bisogno di farsi conoscere. Insomma, non è beneficenza spettacolarizzata: è un piccolo scambio, onesto e concreto. E se allora Eau de l’eau dovesse avere davvero un futuro più “pop”, sicuramente dovrà continuare a rompere qualcosa, ma anche a restituire qualcosa. Altrimenti non avrebbe senso. Perché va bene fingere di stare dalla parte dei cattivi, ma poi, nella realtà, preferiamo restare empatici e umani.

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