Dopo le alterne fortune della serie sui Menendez Brothers e il lavoro diventato ormai cult con Dahmer, Ryan Murphy torna ad occuparsi dei mostri, quelli veri e quelli che la società contribuisce a creare. Con Monster: The Ed Gein Story il regista americano riapre il dossier dei serial killer che hanno segnato l’immaginario collettivo, scegliendo questa volta la figura più inquietante di tutte: l’uomo che ispirò Psycho, Non aprite quella porta e Il silenzio degli innocenti. Ed Gein non è solo un assassino, è l’origine del mito moderno del male, un contadino del Wisconsin degli anni Cinquanta che, dopo la morte della madre, trasformò la sua casa in un museo dell’orrore fatto di resti umani e silenzi religiosi. Murphy lo racconta con il suo solito sguardo lucido e perverso, in bilico tra empatia e disgusto, tra attrazione e condanna. Non c’è più l’effetto shock del primo Monster, ma una tensione più lenta, più cerebrale, costruita sulla malattia della solitudine e sulla violenza che nasce dall’amore deviato.
Charlie Hunnam, che dà volto a Gein, è l’arma segreta di questa stagione. Si libera completamente del carisma fisico di Sons of Anarchy e si lascia inghiottire dal personaggio: parla piano, cammina curvo, guarda come un bambino spaventato che non capisce più il mondo. Riesce a rendere Ed Gein una figura al tempo stesso repellente e fragile, un uomo incapace di distinguere la realtà dalle voci della madre morta, interpretata da una straordinaria Laurie Metcalf.
La loro relazione, più che un rapporto, è una possessione reciproca, un legame tossico che la regia costruisce come una lenta discesa all’inferno. Nei loro dialoghi si percepisce tutto il fanatismo religioso, la repressione e l’odio per il corpo femminile che hanno alimentato la follia di Gein. Murphy non cerca di giustificare il suo protagonista, ma di mostrarlo come un prodotto dell’ambiente, della fede distorta, dell’isolamento rurale e di un’America che non voleva guardarsi allo specchio.

La serie ha il coraggio di spingersi oltre la cronaca e di affrontare il mito culturale che Gein ha generato. In più momenti la narrazione si apre al meta-cinema: Hitchcock che lavora a Psycho, Robert Bloch che scrive il suo romanzo, un giovane Tobe Hooper che anni dopo trasformerà l’orrore della fattoria di Plainfield nella leggenda di Non aprite quella porta. Murphy gioca con la storia come un regista che monta una pellicola dentro la pellicola, ricordandoci che il male diventa immortale solo quando l’arte lo trasforma in racconto. Così, mentre Gein scava le tombe e parla con il fantasma della madre, in un’altra scena vediamo Perkins provare lo sguardo vuoto di Norman Bates: due mondi che si rispecchiano, quello reale e quello cinematografico, legati dallo stesso fascino morboso per la follia. È qui che la serie trova il suo punto più alto, nel momento in cui riesce a dire che i veri mostri non sono solo quelli che uccidono, ma anche quelli che osservano, raccontano, ricordano.
Visivamente, The Ed Gein Story è un film di polvere e ossa. Le stanze della casa di Ed sono claustrofobiche, quasi vive: ogni oggetto sembra pulsare, ogni ombra nasconde un respiro. La regia alterna il realismo sporco al simbolismo quasi pittorico, come se ogni inquadratura fosse una fotografia ingiallita trovata tra i resti della sua vita. La luce è sempre malata, un sole che non scalda mai. Murphy utilizza il silenzio come arma narrativa: lascia che siano i suoni, il vento, il cigolio dei mobili a raccontare la paura. Non si affida all’horror visivo, ma a quello mentale, a quella sensazione di disagio che cresce scena dopo scena.
Nonostante l’ambizione estetica, la serie non è priva di limiti. La struttura frammentata e la continua alternanza di toni rischiano di disperdere la tensione, e a tratti sembra che Murphy si perda nel suo stesso labirinto visivo. Alcuni episodi indulgono nella lentezza o nel simbolismo fine a sé stesso. E, come in molti progetti di true crime, le vittime rimangono poco più che figure di contorno, necessarie ma non esplorate. È il prezzo di una narrazione che vuole parlare del mito più che della realtà, del dopo più che del durante.
Tuttavia, è proprio questa prospettiva a rendere la serie interessante. Monster su Ed Gein non è un semplice racconto di sangue e follia, ma un’indagine sul modo in cui la cultura pop metabolizza il male e lo restituisce come intrattenimento. Murphy ci mette di fronte al nostro stesso sguardo: perché guardiamo queste storie? Cosa cerchiamo dentro il buio? A volte sembra che Ed Gein non sia più il soggetto, ma lo specchio in cui si riflettono i nostri desideri più oscuri. È un gioco pericoloso, ma anche il segreto del fascino della serie. Ogni scena è costruita per sedurre e respingere insieme, per farti entrare nell’orrore e poi chiederti perché non riesci a distogliere lo sguardo.

La prova di Hunnam resta il motore emotivo dell’intera stagione. Il suo Ed Gein non è una caricatura, ma un essere umano spezzato, prigioniero della voce della madre e del peso di un Dio crudele. È uno di quei rari ruoli che riescono a far convivere empatia e orrore, comprensione e disgusto. Laurie Metcalf, dal canto suo, è inquietante nella misura perfetta: predica, urla, prega e in ogni parola si sente la violenza del fanatismo. Insieme costruiscono una dinamica madre-figlio che diventa quasi mitologica, un Adamo ed Eva maledetti dalla colpa originale della paura.
Alla fine della visione resta addosso una sensazione ambigua. Non sai se provare compassione o repulsione, e forse è proprio questo il punto. Monster: The Ed Gein Story è meno spettacolare ma più consapevole dei capitoli precedenti, un passo avanti nel percorso di Murphy verso un racconto del male che non vuole solo intrattenere, ma interrogare.


