Eddington, scritto e diretto da Ari Aster, e interpretato da Joaquin Phoenix, Pedro Pascal ed Emma Stone, ci porta in una cittadina del New Mexico in cui imperversa, come nel resto del mondo, il lockdown più assoluto. Una chiusura di cui lo sceriffo locale Joe Cross (Joaquin Phoenix) non è totalmente d’accordo. Lui pensa che indossare le mascherine sia un errore, che farle indossare per obbligo sia una compromissione della libertà personale, e che il virus in realtà non c’è, certamente non lì, ad Eddington. Il sindaco Ted Garcia (Pedro Pascal) non è dello stesso avviso e cerca di convivere con le idee pericolose dello sceriffo. In seguito a una rissa avvenuta in un supermercato, Cross capisce che in realtà a pensarla come lui sono in tanti e intravede l’opportunità di poter fare carriere politica. Nel corso di una diretta su Facebook, rende pubblica la sua decisione di candidarsi a sindaco contro Garcia alle prossime elezioni. Candidatura che porterà a conseguenze nefaste, tra campagne diffamatorie e complottismo più sfrenato.
Quel che nessuno ha ancora fatto in maniera così vicina e prossima al nostro tempo è raccontare e collettivizzare il trauma e il lutto abissale che la pandemia ha scavato nelle nostre coscienze e nei nostri corpi. Ari Aster prova a inserirsi in quei tempi, investigando quella linea di confine che separa il visibile dall’invisibile, tra pensiero e propaganda, tra politica e spettacolo. Eddington è in questo senso una radiografia del presente, vera ieri quanto oggi, la cui dimensione isterica non è mai tramontata. Per questo forse, è una delle sue opere più crudeli, perché mostra il male, la sua banalità, il suo lento e quotidiano cingersi attorno alle menti più forti, più deboli, e quanto possa diventare replicante, tossico, un’entità che si propaga con la velocità di un feed aggiornato in tempo reale.

Quel che colpisce di Eddington è proprio la capacità di Ari Aster di spingere il suo cinema verso una dimensione più concettuale, dove il terrore risiede nel reale. Qui il mostro non è mai esterno: è la forma stessa del linguaggio, la rete di immagini e di informazioni che costruiamo ogni giorno per tenerci a galla in un mondo che non ammette più il silenzio. Aster sembra dirci che l’orrore contemporaneo è quello dell’eccesso di visibilità, dell’impossibilità di nascondersi, della continua esposizione di sé come forma di sopravvivenza. La città di Eddington – o meglio, la sua idea – è un microcosmo che riflette la condizione del mondo occidentale post-pandemico. L’immagine, in questo universo, ha divorato la realtà, e il film ne fa un motivo estetico e politico al tempo stesso. Ogni scena sembra costruita come una finestra sullo schermo di qualcun altro, una proiezione in cui i confini tra soggetto e oggetto, osservatore e osservato, vengono erosi fino alla dissoluzione.

Ari Aster ritorna nel territorio che più gli appartiene: quello dell’ossessione come grammatica collettiva, della paura come linguaggio condiviso. Ma stavolta il luogo infestato non ha mura né fondamenta, è l’intero corpo sociale a tremare. La cittadina di Eddington è un piccolo far west dell’era digitale dove i duelli non si consumano per il possesso della terra, ma per il controllo del racconto. I pistoleri brandiscono telefoni e i saloon si sono trasformati in dirette live, commentate e condivise in tempo reale. Cambiano i mezzi, ma non la sostanza: la violenza continua a definire l’appartenenza, la menzogna resta il cemento dell’unione, la paranoia si eleva a dottrina nazionale.
Ma il vero volto del film non è quello dello sceriffo né del sindaco: è quello della moltitudine che li osserva. Una folla invisibile e onnipresente, che abita i margini di ogni scena; applaude, giudica, condanna, dimentica. È la comunità ridotta a spettro, l’eco di un pubblico che non riesce più a distinguere il dramma dalla diretta. Quando la narrazione cede al collasso, e l’inevitabile disastro si compie, perché nei mondi di Aster la catastrofe non arriva mai, è già successa, solo che non l’abbiamo ancora capita, resta la sensazione che Eddington non voglia parlare né di politica, né di pandemia, né di America.
Il suo vero oggetto è più profondo e più disperato: la fatica di credere, l’impossibilità di distinguere la verità dal rumore. È una parabola sul logoramento della coscienza collettiva, sul modo in cui la fede si è tramutata in sospetto e la memoria in archivio digitale. Quando scorrono i titoli di coda, non si prova paura per ciò che il film ha mostrato, ma per ciò che ha soltanto suggerito: che l’orrore autentico del nostro tempo non è più l’essere visti, ma il non avere nulla di reale da offrire allo sguardo.


