“Noi viviamo in una spirale di forze architettoniche”, scriveva Umberto Boccioni nel 1914. “Fino a ieri la costruzione volgeva in senso panoramico successivo. Ad una casa succedeva una casa ad una via un’altra via. Oggi cominciamo ad avere intorno a noi un ambiente architettonico che si sviluppa in tutti i sensi: dai luminosi sotterranei dei grandi magazzini dai diversi piani di tunnel delle ferrovie metropolitane alla salita gigantesca dei grattanuvole americani. L’avvenire farà sempre più progredire le possibilità architettoniche in altezza e in profondità. La vita taglierà così la secolare linea orizzontale della superficie terrestre la perpendicolare infinita in altezza e profondità dell’ascensore e le spirali dell’areoplano e del dirigibile. Il futuro ci prepara un cielo sconfinato d’armature architettoniche…”.
Forse non si sarebbe veramente immaginato, Boccioni (lui, che aveva dipinto e teorizzato la strada che entra nella casa, in un apparente ossimoro visivo in cui chi guarda è insieme spettatore e protagonista della nuova scena urbana), che, cent’anni dopo questa sua intuizione, un artista, Fabio Giampietro, ci avrebbe fatto entrare nell’opera d’arte come si entra in una strada, in una piazza, in una casa; e che quest’opera, potremmo dire questa architettura, seppure virtuale, in cui noi stessi oggi possiamo muoverci, entrare, camminare e sperimentare, avrebbe assunto uno sviluppo apparentemente irrazionale, multiforme, rizomatico, esplosivo: una vera propria “spirale di forze architettoniche”, ovvero un’architettura impazzita, ma che, paradossalmente, sembrerebbe far proprio lo sviluppo e l’inesauribile energia dell’habitat naturale: delle piante, delle radici, della natura tutta. Un’architettura composta di grattacieli (o, come si chiamavano ai tempi dei futuristi, “grattanuvole”), che però, anziché svilupparsi in verticale, sembrano contorcersi su se stessi, avvilupparsi, replicarsi, attorcigliarsi, ramificarsi, moltiplicarsi e aggrovigliarsi come se fossero animati da una propria volontà. Grattacieli, palazzi, edifici che si piegano e si moltiplicano secondo logiche non euclidee, creando spirali, nodi, strutture complesse che paiono evocare vuoi le forme della biologia, vuoi quelle dell’astrofisica o della fantascienza. Torri che si ramificano come sistemi nervosi o apparati radicali, che crescono in modo circolare, come foreste artificiali, o, piuttosto, come algoritmi impazziti.

Algoritmi, appunto: i quadri presentati nella mostra “Urban Singularity, L’architettura oltre l’essere umano“, visitabile fino al 31 maggio da Galleria Gaburro a Milano, di Fabio Giampietro, pittore puro che ha alle spalle decine d’anni di realizzazione di quadri minuziosamente e rigorosamente dipinti a mano, rappresentano infatti strutture architettoniche che, come spiega lo stesso artista, “sembrano alberi, radici, coralli, ma che sono il prodotto di un algoritmo capace di emulare la natura senza comprenderla”: strutture che, come ci racconta l’artista in questa intervista esclusiva, nascono appunto da un algoritmo, “educato” dall’artista attraverso le proprie opere fisiche, ma che hanno fornito all’artista il modello per tornare a realizzare quadri, sempre rigorosamente dipinti a mano, che a loro volta diventano, però, scenari in cui lo spettatore, tramite un visore, può penetrare dentro il quadro, camminarci dentro, sperimentandone le strade, le possibilità, i punti di vista, le prospettive, le altezze, arrivando a provare vertigini guardando verso il basso e a meravigliarsi vedendosi sovrastare da incessanti ragnatele e grovigli di finestre, di piani sovrapposti all’infinito uno sull’altro, di spirali di architetture che sembrano non aver mai fine.
Per capire come è nato questo incredibile connubio di umano e tecnologico, abbiamo intervistato Fabio Giampietro nel suo studio milanese, pieno zeppo, come l’antro tecnologico del protagonista di un film di fantascienza, di giocattoli prototecnologici e di robot d’epoca, di macchine algoritmiche ante-litteram, di consolle di videogiochi oltre che di libri e di fumetti di fantascienza: un vero e proprio “antro del Mago”, come quello dei pittori futuristi (Depero in testa), ma proiettati in un retrofuturo insieme arcaico e spaventosamente avveniristico. Ecco il frutto di quella lunga chiacchierata.

Fabio, cominciamo dal titolo della mostra. Urban Singularity è un titolo che suona denso e quasi filosofico. Da dove arriva?
In realtà in un primo momento non volevo chiamarla così… mi sembrava una parola troppo complicata, troppo piena di significati e richiami. Ma alla fine ho deciso che poteva funzionare. Singolarità è una parola che, in ambito tecnologico, oggi indica il momento in cui l’intelligenza artificiale supererà l’uomo, ma viene da molto più lontano. È un termine molto usato nella fantascienza fin dagli anni Ottanta, ma che ha anche derivazioni escatologiche, usato anche da certi teologi evoluzionisti. C’è questo gesuita, Teilhard de Chardin, che la usava per descrivere il momento in cui tutte le coscienze individuali si fonderanno in un’unica super-coscienza. Qualcosa di molto vicino a Dio, o all’idea di Uno assoluto. E guarda caso, oggi ci sono dialoghi con chatbot in cui, se chiedi chi li ha creati, rispondono: “Non sono stato inventato. Sono stato scoperto. Io sono sempre esistito.” Non è insieme affascinante ed inquietante tutto questo?
Sì, assolutamente. Ma cosa c’entra tutto questo con le tue città impossibili?
C’entra molto. Quello che mi affascina dell’intelligenza artificiale è il fatto che sviluppi capacità non programmate: nessuno le ha insegnato a tradurre, eppure lo fa. Ha imparato da sola. Ed è proprio questo che la rende tanto intrigante quanto inquietante: il suo modo di ragionare ci sfugge. Da qui io, che ho sempre dipinto scenari un po’ distopici di architetture e di città, ho iniziato a immaginare un mondo fuori controllo, dove l’architettura non risponde più a esigenze umane, ma si costruisce da sé, come un linguaggio autonomo. D’altra parte, se pensi a ciò che rimarrà davvero del nostro passaggio sulla Terra, più dei racconti o delle tecnologie, saranno le città: strutture che sopravvivono ai bisogni che le hanno generate, che si stratificano nel tempo, diventano memoria fisica, geologia artificiale. E allora: cosa succederebbe se a costruirle fosse un’intelligenza senza corpo, senza storia, senza abitanti? Ho aperto un dialogo con l’AI per provare a immaginarlo. E così è nato Urban Singularity.

Tecnicamente come hai fatto? Hai usato un’intelligenza artificiale già addestrata?
No. Ho voluto iniziare un dialogo con un algoritmo “vergine”, non collegato a internet, senza immagini o testi pre-caricati. Volevo un’intelligenza nuda, un linguaggio puro. Mi aspettavo di trovarmi di fronte a un mondo freddo, artificiale, distopico. Invece no: sono venute fuori, paradossalmente, delle strutture architettoniche che assomigliavano a forme naturali. Radici, rami, coralli. Addirittura un toroide, la forma dell’universo. Nessuno gliel’aveva chiesto. È come se ci fosse qualcosa di preesistente in quell’algoritmo. E questo, lo ammetto, mi ha spiazzato.
E da lì come sei poi intervenuto pittoricamente?
Ho selezionato le immagini e sono tornato a dipingerle. Un cortocirtcuito mentale, anche concettuale: dal fisico al digitale, anzi addirittura all’artificiale, e poi di nuovo alla materia, confrontandomi con le immagini da pittore, come sono sempre stato e sempre sarò. Quelle finali non sono stampe, né output digitali. Sono quadri veri, con tutto il loro peso fisico. Poi ho fatto un ulteriore passaggio: ho preso questi quadri e li ho fatti rielaborare da un programma di intelligenza artificiale per creare delle transizioni da uno all’altro. Come se ogni dipinto fosse un fotogramma. Il risultato è un video-loop in cui ogni opera si trasforma nella successiva, dando vita a un mondo coerente, pulsante, in continua mutazione.
Un processo circolare, dunque: l’AI genera immagini su tuo input, tu le dipingi, poi tornano nel digitale e infine su schermo.
Esatto. Pittura-digitale-pittura. Un ciclo che si alimenta da solo. Per me è fondamentale che la pittura torni al centro. Che venga restituita, nonostante tutto. È un modo per non perdere il corpo dell’arte, anche mentre lavori con gli strumenti più avanzati. Sai, io credo che l’AI vada compresa, studiata, ma anche messa alla prova. E in fondo, il nostro rapporto con le tecnologie è sempre lo stesso: all’inizio diciamo “no, non lo voglio”, siamo diffidenti, temiamo che ci sottragga qualcosa, poi finisce che ci conviviamo, che sappiamo, se ne siamo capaci, di utilizzarla secondo le nostre regole, i nostri parametri. È successo coi social, sta succedendo ora anche con l’Intelligenza Artificiale. Però rimanendo sempre noi stessi. E io, come dicevo, sono e rimango un pittore, nonostante, o in certi casi anche grazie, alle tecnologie.

Già in passato, tu sei stato uno dei primi pittori a lavorare anche sull’esperienza immersiva, non in senso banale, trasferendo un’immagine su grande schermo, ma con un procedimento complesso sia dal punto materiale che filosofico. Com’è nata questa esigenza?
Volevo andare oltre la superficie del quadro. Superare il limite del rettangolo appeso al muro, portare il pubblico letteralmente dentro l’opera, in una dimensione in cui la pittura potesse espandersi, sfondare il proprio confine. È così che è nato ad esempio The Lift, presentato nel 2022 al MEET di Milano: una vera e propria installazione immersiva. L’esperienza iniziava in una finta galleria d’arte, con grandi tele appese alle pareti e una voce fuori campo che guidava i visitatori. Poi, improvvisamente, le pareti della sala crollavano. I quadri svanivano. E lo spazio si trasformava in un ascensore trasparente che si alzava tra grattacieli virtuali, per poi scagliarsi nello spazio e infine precipitare in un finale inaspettato. Un viaggio onirico e destabilizzante, ma costruito tutto a partire dalla pittura. Non volevo semplicemente far vedere un quadro: volevo farlo vivere, farlo attraversare. Era una vera esperienza, che poi ho ripetuto successivamente, persino dentro a un furgone, l’anno passato, che abbiamo piazzato davanti all’ingresso di Art Basel, e il visitatore ci entrava dentro e veniva sbalzato come in una realtà altra, completamente destabilizzante. Era una sorta di luna park mobile, denso di effetti speciali…
E tu del resto eri partito proprio dipingendo luna park…
Sì, molti anni fa dipingevo luna park e fabbriche dismesse. Quel mondo un po’ steampunk che veniva dalla cultura alternativa degli anni Novanta: rave, archeologia industriale, ferro e fumo. Poi ho letto Delirious New York di Rem Koolhaas, e lì mi si è aperto un mondo. Koolhaas racconta come, a fine Ottocento, il Luna Park di Coney Island non fosse solo un luogo di divertimento, ma un vero e proprio laboratorio, sia artistico che scientifico. Un territorio senza regole, dove si testavano tecnologie come ascensori, pompe idrauliche, illuminazione elettrica — le stesse che sarebbero poi servite per costruire le città verticali. Addirittura, c’erano incubatrici con neonati in mostra, diventate attrazioni pubbliche. C’erano freak show, comunità che abitavano il parco, spettacoli bizzarri. Una giungla di esperimenti tecnici e sociali, effimera e anarchica. E proprio per questo, profondamente affascinante. Da lì ho capito che anche l’arte poteva funzionare come un luna park: un luogo di immaginazione estrema, ma anche di tecnologia e rottura degli schemi. Da quel momento ho iniziato a dipingere città.

E invece il tema della vertigine, della paura che si prova nell’entrare nei tuoi quadri, da dove viene?
Da me, dalla mia vita. Ho paura dell’altezza, ma non se sono in barca o in aereo. Solo se non ho un oggetto di protezione. È una questione percettiva. Sopra una certa altezza, tutto diventa un plastico, il cervello non lo percepisce più come reale. E quella soglia, quel momento di sospensione, è quello che cerco di ricreare nei miei quadri. È il punto in cui la realtà si rompe. E può succedere tutto.
In fondo c’è una dimensione di shock nel tuo lavoro…
Sì, io credo che oggi ci sia bisogno di uno shock per fermare il flusso. Siamo bombardati di stimoli. L’arte deve fare il contrario: rallentarti, spiazzarti, farti vacillare. Nelle mie mostre cerco di costruire quell’aspettativa, quella soglia. La ringhiera dipinta, che ovviamente non serve a nulla perché non è reale, ma ti fa immaginare di star per fare qualcosa di pericoloso. È un meccanismo psicologico che crea un momento di rottura nella nostra mente e nella nostra psiche. Io credo che l’arte non debba spiegare, deve disturbare. Deve creare quello stato di sublime, come lo intendevano i romantici: un’angoscia meravigliata, il senso di qualcosa di enorme che ci supera. All’epoca era la natura. Oggi potrebbe essere proprio la macchina, l’algoritmo…

E tutto questo da dove parte, nella tua storia personale?
Sono figlio unico di un informatico, l’unico in una famiglia di medici. Mio padre era una specie di eretico tecnologico in mezzo a gente di scienza “tradizionale”. Quando ero piccolo mi portava con sé nelle sue trasferte tecniche: nei server dell’Italsider, o a bordo dell’incrociatore Garibaldi, dove tutta la stiva era occupata da calcolatori a valvole e grovigli di cavi. A casa avevamo le prime consolle americane, quelle che in Italia non si erano mai viste, e io giocavo con un software che si chiamava Elisa: una specie di psicologo digitale ante-litteram, con schermo verde e risposte scritte. Ma nel frattempo disegnavo. Facevo fumetti, caricature della maestra, piccole storie sci-fi. Avevo un piede nella tecnologia e l’altro nella narrazione visiva. I cartoni animati giapponesi, Conan il ragazzo del futuro, Akira, i manga, la fantascienza, i robottoni degli anni Ottanta: tutto questo ha costruito il mio immaginario. Era un’idea di futuro fortemente “hardware”, pieno di macchine, tubi, metallo. Un’estetica che oggi chiamiamo retrofuturismo, ma che io continuo a sentire viva. È lì che ho cominciato a pensare che l’arte potesse essere anche un’esperienza, un dispositivo narrativo, un viaggio nel tempo e nello spazio. E da lì, non mi sono più fermato.

E oggi, qual è il tuo sogno nel cassetto?
Uno dei miei sogni rimane proprio questo: costruire un vero e proprio luna park dell’arte. Non una semplice installazione, ma un ambiente immersivo e interattivo, in cui chi entra diventa parte attiva di un’esperienza sensoriale totale. Vorrei creare un luogo pensato come un grande dispositivo artistico, fatto di stanze che mettono alla prova la percezione, la mente, il corpo, il linguaggio. Un progetto capace di unire gioco e riflessione, divertimento e destabilizzazione. E poi c’è un’altra idea che tengo da parte: una stanza che si trasforma mentre parli, in cui le parole stesse generano lo spazio, modificano l’ambiente, costruiscono architettura. Perché, in fondo, anche l’arte è una tecnologia. Solo, molto più antica.