La premessa doverosa di chi scrive è il senso dell’assenza. Questa “Fantastica” Quadriennale che ha appena aperto al Palazzo delle Esposizioni di Roma e che può essere visitata fino al 18 gennaio del prossimo anno è figlia di un’intuizione del presidente Luca Beatrice, che è mancato improvvisamente nel pieno della sua gestazione, il 21 gennaio scorso. «Fantastica è l’arte, per la sua capacità di dischiudere nuovi orizzonti, a tutte le latitudini e in tutte le epoche. Fantastica nella sua valenza di verbo è un invito a riscoprire oggi la potenza del simbolico e la potenza dell’immaginazione», aveva detto con quella sua cadenza torinese e scanzonata che ancora ci risuona nelle orecchie.
Venerdì scorso, varcando il portone del Palazzo, ci è parso di sentirla ancora e di ritrovarsi a chiedere che cosa avrebbe detto Beatrice di questa Quadriennale: è davvero così Fantastica come se l’era immaginata? Nota a margine: chi lo ha conosciuto sa con che maniacale cura aveva organizzato tutto per tempo e gli stessi curatori coinvolti hanno testimoniato che il progetto finale è, alla fine, in tutto e per tutto aderente a quanto immaginato da Beatrice (noi possiamo dire che di certo il catalogo Marsilio Arte gli sarebbe piaciuto parecchio…).

Ora che al posto di Beatrice c’è Andrea Lombardinilo, a capo di una Fondazione che è partecipata del Ministero della Cultura, Direzione Generale Creatività Contemporanea, della Regione Lazio, di Roma Capitale, della Camera di Commercio di Roma. Altra premessa doverosa: attorno alla Quadriennale si muovono investimenti notevoli. Parliamo, per l’edizione 2025, di un budget di 2,5 milioni di euro (il 44% dai fondi dell’Istituzione stessa, il 40% da contributo ministeriale, il 16% da sponsor privati, con Intesa Sanpaolo come main partner e Enel come sponsor ufficiale). Terza e ultima premessa: la Quadriennale è un’invenzione del regime fascista. Nasce infatti nel 1927 ed è stata a lungo guidata e diretta da Cristiano Efisio Oppo che fu tante cose (tra cui pittore e deputato). Nel dopoguerra è stata rifondata e ha vissuto stagioni altalenanti per un’istituzione che nasce con l’ambizioso progetto di intercettare, documentare e valorizzare gli esiti migliori dell’arte nostrana. Nulla a che vedere, dunque, con le sperimentazioni ardite o le “consacrazioni” della Biennale e del Padiglione Italia (di cui si attende ancora la nomina del curatore): la Quadriennale ha il compito di fare una fotografia del presente e suggerire possibili intuizioni, a metà tra cronaca e lavoro di scouting.
A nostro giudizio, questa “Fantastica” risponde a queste aspettative. Un po’ lo dicono anche i numeri: nei 2mila mq di esposizione al piano terra troviamo 54 artiste e artisti, tutti viventi, di cui 16 under 35, tutti italiani. Sono 187 le opere presentate: molta pittura, ma spazio anche alla scultura e alla fotografia (quasi assente o poco rappresentata l’arte digitale). Si tratta di una mostra collettiva che nasce dalla somma di cinque progetti curatoriali che si snodano e si intrecciano.

Sono firmati da Luca Massimo Barbero, da Francesco Bonami, da Emanuela Mazzonis di Pralafera, da Francesco Stocchi e da Alessandra Troncone che così hanno declinato il loro progetto: Barbero ha ragionato in modo originale sul tema dell’autoritratto (evitando didascalismi e soffermandosi su oggetti che ci rappresentano), Bonami sul tema della memoria, Mazzonis sull’evoluzione della fotografia, Stocchi sulla genesi di un atto creativo, Troncone sul corpo (umano, animale, ibrido). Strutturalmente, le cinque mostre si intrecciano, complice anche l’allestimento essenziale ma tutto sommato riuscito di Studio BRH+: Bonami – senza osare troppo – si prende la scena e l’ingresso con la notevole installazione firmata da Giulia Cenci e poi, di lato, presenta i lavori di altri 12 artisti, tra cui quelli particolarmente riusciti di Jem Perucchini e l’installazione di Lorenzo Vitturi. Tutto gradevole e instagrammabile.
Più raffinato il progetto di Barbero che le sue punte che, per evitare l’effetto “scrolling” che spesso dà tanta pittura contemporanea, si prende molto spazio e concepisce una mostra sul tema dell’autorappresentazione i cui punti più alti sono dati certamente dal lavoro di Emilio Gola, Roberto de Pinto, Gianni Caravaggio, con il contrappunto di firme stra-consolidate come Vedovamazzei e Luisa Lambri. Le due curatrici, Mazzonis e Troncone, presentano entrambe approcci più documentaristici: la sezione dedicata alla fotografia regala però “stravaganti sorprese” (per noi notevoli) dell’Autoritratto di Jacopo Benassi, degli esperimenti fotografici di Linda Fregni Nagler e di Andrea Camiolo (l’unico a ragionare in modo originale sull’AI). Accanto ai lavori di Francesco Jodice e Giovanni Ozzola, certamente validi, spicca la sala dedicata alla 40enne Teresa Giannico che si conferma come uno dei talenti più interessanti della sua generazione sia per l’originalità della ricerca che per l’esito formale. Più debole, a nostro sindacabilissimo giudizio, il focus sul corpo curato da Alessandra Troncone dove, al netto della pittura di Iva Lulashi, che è sempre una garanzia, e delle sculture affascinanti di Diego Cibelli e Camilla Alberti, forse si poteva ragionare meglio sul concetto di ibridazione dei corpi e dare spazio a più opere su questo tema.

Chiudiamo con la mostra più concettuale, quella curata da Francesco Stocchi che nel suo progetto “Senza Titolo” ci propone qualcosa di diverso: che succede se nove artisti tra loro diversi si ritrovano insieme e pensano a una collettiva senza tema fisso? Come si misura la creatività collettiva? Gli artisti italiani sanno fare sistema? La mostra cerca di raccontarlo, a modo suo. Scandita su due sale, è impreziosita dal “Ragno” (titolo vero dell’opera: “Hunger”) di Arcangelo Sassolino che si muove, gagliardo e meccanico, in una sala mentre nell’altra i diversi progetti (tra cui quello di Adelaide Cioni, Valerio Nicolai e Martino Gamber) sono collegati da un filo rosso e da un pavimento candido su cui bisogna lasciare tracce. Perché l’arte è partecipazione e anche il pubblico deve esserci.
Al piano di sopra – ma questa, forse, è un’altra storia – Walter Guadagnini ha curato una mostra storica che riflette sulla big-Quadriennale del ’35, voluta da Mussolini, presieduta da Bottai, curata da Oppo con numeri da far impallidire quella di oggi: 700 artisti, 62 sale, 1761 opere. Ne vediamo ora nell’esposizione “I giovani e i mastri: la Quadriennale del 1935” solo una minima selezione, circa una trentina, che evita con cura le opere di propaganda e si concentra sugli esiti più interessanti (Scipione, Severini, Morandi, Leonor Fini, Regina). Stridente, tuttavia, il contrasto tra il piano terra e il primo piano: se nel ’35 non c’è opera che fosse, in qualche modo, politica, la Fantastica Quadriennale 2026 pare sfuggente al diretto confronto con l’attualità presente. Meno engagé e ideologica, l’arte italiana che esce dall’istantanea che si coglie girovagando nel Palazzo delle Esposizioni appare – seppur con esiti a densità variabile – varia, multiforme, intima, personale. Certamente in ricerca di un centro di gravità permanente.


