Festival “Rifiutati”, a Massa tra performance, incontri, opere d’arte. “Un atto d’amore”, dice Lorenzo Porzano, “per l’arte, l’ambiente e gli ultimi”

Si è aperta ieri al pubblico la seconda edizione del Festival Rifiutati a Massa, nella sede del Cermec, il Consorzio Ecologia e Risorse di Massa e Carrara, l’impianto industriale per il trattamento dei rifiuti della zona. Un grande afflusso di pubblico, accorso per vedere e partecipare a uno dei Festival più attesi della Toscana, in cui opere di artisti di rilevanza nazionale (da Fabio Viale a Giuseppe Veneziano, passando per Andrea Crespi, Florencia Martinez, Fabio Giampietro, Corrado Bonomi, Giovanni Motta e molti altri) si mescolano in maniera del tutto naturale alle creazioni dei bambini e ragazzi con disabilità dell’Anfass (che hanno realizzato una Venere dei sassi assieme a Filippo Tincolini), anziani di case di riposo, laboratori (il maestro Stefano Alinari, orafo di fama, ha portato i suoi studenti a realizzare gioielli davanti al pubblico), detenuti (dal carcere di Massa hanno mandato una cella ricostruita in grandezza naturale in cartone, comprensiva di sgabelli, tavolo, letti a castello e stoviglie); e poi una pista da bocce realizzata con sabbia di marmo proveniente dalle cave, un torneo di biliardino, convegni e incontri in mezzo ad artisti che realizzavano i propri lavori in diretta (la crew di ragazzi dell’artista Felipe Cardeña costruivano una tenda in stile hippy con stoffe provenienti da ogni parte del mondo), performance: Giovanni Motta ha dato fuoco ai poster raffiguranti il suo Jonni Boy, Florencia Martinez coinvolgeva il pubblico in una performance di autocoscienza. Un grande, favoloso caravanserraglio che riusciva tuttavia a tenere altissima la qualità e la temperatura delle opere esposte, all’altezza in molti casi di grandi manifestazioni pubbliche internazionali.

Lorenzo Porzano con la Venere dei Sassi di Filippo Tincolini realizzata con i ragazzi dellAnfass

Con un formidabile Giuseppe Veneziano che ha messo una sua grande scultura di un Superman che si… schianta sul soffitto di uno dei capannoni del Cermec, Fabio Viale con un bellissimo lavoro sullo spreco alimentare, Corrado Bonomi che ha montato un installato un grande fiore realizzato in materiali plastici e un coccodrillo realizzato con i contenitori delle uova, Maria e Elisabetta Cori che girava con un abito fatto di ombrelli rotti e un carrellino al seguito, Danilo Sergiampietri che realizzava Ritratti effimeri su lastre di marmo che poi cancellava a fine serata, Avassena realizzava una grande installazione in diretta con lastre ai raggi X, Fabio Giampietro portava un musicista, Alessandro Branca, a suonare il violoncello sulla sua installazione composta da vecchi televisori, Manuel Felisi realizzava un Omaggio a Morandi su enormi cubi di petra come piedistallo, Cristiano Gassani & Luca Marchini ricostruivano uno stand di vestiti usati per ragionare su arte e moda nell’ottica della bellezza e del recupero, Alessandra Pierelli imbandiva una tavola pop con dolci veri e falsi…

Mauel Felisi

Questo e molto, al Festival Rifutati che andrà avanti ancora per tutte le giornate di oggi e domani. E, soprattutto, per chi ha partecipato alla serata inaugurale, il ricordo di una performance folle e incredibile, dove l’artista Giacomo Cossio, famoso per le sue performance in cui trasforma le piante in pitto-sculture viventi, per la prima volta ha sperimentato la pittura in pubblico di… un essere umano: Lorenzo Porzano, amministratore unico di Cermec, grande appassionato d’arte e amico e compagno di strada di molti artisti. L’abbiamo intervistato e non potevamo che cominciare da qui: dalla performance in cui si è volutamente trasformato in statua vivente.

Buongiorno Porzano, partiamo allora dalla performance di Giacomo Cossio che ti ha visto protagonista ieri: ti sei trasformato in una statua. Ci vuoi raccontare com’è nata quest’idea e perché?

L’idea è nata durante una visita di Giacomo Cossio al Cermec per preparare il suo intervento di quest’anno. L’anno scorso, infatti, aveva “monocromizzato” un intero mucchio di spazzatura, trasformandolo in un oggetto d’arte effimero. Quest’anno voleva cambiare soggetto. Dapprima aveva pensato a una ruspa da colorare, ma la trovava una performance troppo statica. Così, quasi per gioco, come una boutade, a un certo punto è saltata fuori quest’idea… Giacomo si è entusiasmato, io all’inizio sono stato preso alla sprovvista e ho esitato un po’. Poi ho capito che aveva perfettamente senso. Essere un “manager pubblico atipico”, come mi hanno definito, vuol dire anche questo: mettersi in gioco in prima persona, anche fisicamente. È un modo per dire: non sono fuori dal processo, ne sono parte. Mi espongo, letteralmente, ci metto il corpo e la mia faccia per impegnarmi per i temi ambientali, ma anche quello del recupero di tutte le persone che si trovano in una posizione di fragilità, che per un motivo o per l’altro sono stati o si sentono “rifiutati” dal consesso sociale…

Sara Baxter Super Can Science Courtesy Galleria Federica Ghizzoni

Già il nome è molto è forte, in effetti: “Rifiutati”. Ma com’è nato il festival, e da dove viene questa idea?

L’idea nasce da un cortocircuito personale, direi quasi esistenziale. Da un lato il mio ruolo istituzionale, come amministratore unico del Cermec, un impianto di trattamento rifiuti. Dall’altro la mia passione profonda per l’arte, per la comunicazione, per tutto ciò che riesce a scuotere, a generare immaginario. A un certo punto ho capito che la comunicazione ambientale così com’è non funziona più: è satura, inefficace, anestetica. Ci sono studi che dicono che un visitatore medio resta davanti a un’opera d’arte pochi secondi. E allora? Come si fa a parlare di ambiente, di crisi climatica, di spreco, se non si riesce nemmeno a catturare l’attenzione?

Da lì nasce il Festival Rifiutati: un festival che è anche mostra, convegno, installazione vivente. E nasce non in un museo o in una galleria, ma nel cuore dell’impianto, tra capannoni e presse, dove ogni giorno arrivano rifiuti. Perché oggi, se vuoi parlare davvero a qualcuno, devi rompere gli schemi. Anche solo cambiando un accento: rifiuti, rifiutati, rifiutarsi. Di conformarsi, di accettare che la bellezza stia solo nei luoghi istituzionali. La bellezza è ovunque noi ci immaginiamo di portarla.

Giuseppe Veneziano

Proprio il luogo in cui si tiene il Festival – l’impianto Cermec – è forse l’aspetto più radicale. Che significato ha trasformare un luogo così in una piazza d’arte?

Storicamente gli impianti di trattamento rifiuti sono stati costruiti ai margini, nascosti, quasi come se fossero qualcosa da non far vedere. Lo stesso trattamento che spesso riserviamo ai problemi veri. Portare l’arte dentro un luogo come questo, renderlo uno spazio aperto, condiviso, una piazza, vuol dire non solo restituire dignità ai materiali, ma anche alle persone. Per tre giorni, un impianto industriale si trasforma in una cittadella dell’arte, della solidarietà, del pensiero attivo. Con la partecipazione degli artisti, del pubblico, e dei ragazzi che solitamente in questo luogo ci lavorano. Ma che per tre giorni lo vivono in maniera duversa, più libera e creativa. Certo, le difficoltà logistiche e organizzative sono state enormi, ma proprio per questo aveva senso farlo. Dimostrare che la bellezza può sbocciare ovunque, anche tra i cassoni del compostaggio.

Avvassena

Il Festival ha una fortissima valenza sociale. Non è solo arte, è un manifesto contro l’esclusione. Ce lo racconti meglio?

L’anno scorso abbiamo ospitato padre Carmelo, cappellano del carcere di Rebibbia. È venuto a parlarci degli ultimi, di chi viene scartato, escluso, dimenticato. Ecco: il cuore del Festival è proprio questo. Non solo rifiuti da recuperare, ma persone da riaccogliere. Artisti affermati, outsider, disabili, detenuti, artigiani, ragazzi delle associazioni, persone anziane: qui espongono tutti con la stessa dignità. Senza distinzione, senza barriere. Ed è stato commovente vedere che nessuno degli artisti affermati ha fatto la “prima donna”. Anzi, molti ci hanno chiesto di poter esporre proprio accanto ad artisti emergenti o addirittura non-professionisti. È nata una comunità temporanea, ma vera, viva, generosa. E per accogliere tutte le richieste, abbiamo dovuto aggiungere un capannone in corsa. Una follia, ma anche la prova che il Festival stava davvero rompendo qualcosa.

Filippp Tincolini

C’è anche una grande attenzione al territorio, agli artisti e artigiani di Massa e Carrara. Quanto conta questa dimensione “locale”?

Per me è fondamentale. C’è un aneddoto che mi ha sempre colpito: quando Napoleone chiese a Canova di trasferirsi a Parigi, lui rifiutò. Voleva restare nella sua terra. Nonostante l’oro promesso, rimase fedele al luogo in cui era nato. Io penso la stessa cosa: la forza di un progetto culturale è anche radicata nella terra da cui nasce. Non potevamo dimenticare gli artisti del nostro territorio, perché qui c’è una tradizione di bellezza, di cultura, di pensiero, che è unica al mondo. Riconoscerlo è un atto di rispetto, ma anche di giustizia.

Lorenzo Porzano con Alessandra Pierelli

Quest’anno tra le opere più forti c’è una cella a grandezza naturale costruita dai detenuti. E molte altre arrivano da RSA, associazioni, realtà fragili. Perché era importante includerle?

Perché non puoi parlare di rifiuti senza parlare di chi viene rifiutato. La società tende a nascondere le sue fragilità. Noi invece vogliamo metterle al centro. Non è solo una mostra, è un processo di restituzione: dare spazio, parola, visibilità a chi normalmente non ce l’ha. Ed è stato emozionante vedere l’entusiasmo con cui queste realtà hanno aderito. Alcune espongono per la prima volta. Tra le cose più bella? La cella in cartone, a grandezza naturale, che ci hanno fatto avere i detenuti del carcere di Massa, i lavori degli anziani di una RSA, l straordinaria scultura realizzata con gli scarti del marmo da Filippo Tincolini con i ragazzi dell’Anfass. Una piccola rivoluzione silenziosa, ma potentissima.

Alcuni degli operai e dei ragazzi del Cermec

Il Festival si aperto simbolicamente proprio il 5 giugno, Giornata Mondiale dell’Ambiente. L’arte può davvero parlare di ecologia?

L’arte deve parlare di ecologia. Anzi, lo fa naturalmente. L’ambiente non è solo un tema tecnico o normativo: è emozione, sensibilità, immaginazione. L’arte ha il potere di scuotere, di far pensare, di creare connessioni inattese. Noi non vogliamo dare risposte preconfezionate. Offriamo stimoli, visioni, provocazioni. E ognuno prende quello che sente, quello che gli serve. È una comunicazione aperta, non un sermone. Una piazza, appunto.

C’è anche un omaggio a Cesare Leonardi, l’inventore dei Solidi, e una partecipazione di Tiziano Lera. E poi un tavolo e una sedia di Luca Gnizio, realizzati con asfalto dalle cui crescono delle piante… Come mai questa attenzione all’architettura e al design sostenibile?

Perché il luogo e i luoghi dove abitiamo devono concorrere a una crescita armonica, nostra e del pianeta, e non rappresentare una violenza nei materiali o nelle forme. Per questo abbiamo voluto dare un messaggio, che in futuro spero possa aumentare ulteriormente. Cesare Leonardi, del resto, è stato uno degli architetti più visionari d’Italia. Le opere che portiamo sono costruite con tavoloni da ponteggio: solidi, materici, concreti. Eppure, nonostante due sue opere siano al MoMA di New Yok, il grande pubblico lo conosce poco. È un “rifiutato” a suo modo: un genio dimenticato, o meglio confinato a una nicchia troppo colta. Con la sua Fondazione vogliamo avviare un dialogo che continui anche oltre il Festival. E poi c’è Tiziano Lera, che è una vera “rockstar dell’architettura ambientale”. Anche lui ha scelto di esserci, rinunciando ad altri eventi importanti, proprio perché ha riconosciuto nel nostro progetto un valore autentico. Queste presenze ci onorano e ci spingono a sviluppare maggiormente questa sezione dal prossimo anno.

Andrea Crespi

Il Festival ospita anche artisti notissimi: Fabio Viale, Giampietro, Veneziano, Motta, Crespi, Bonomi… Cosa li ha convinti a partecipare?

Credo li abbia convinti lo spirito del Festival. Nessuno ha chiesto privilegi o corsie preferenziali. Si sono messi in gioco con entusiasmo, con umiltà. Hanno accettato la sfida, anche logistica, di esporre in un contesto industriale, vivo, imperfetto. Alcuni hanno realizzato opere site-specific, pensate per interagire con i macchinari, con le presse, con gli spazi del compostaggio. Per me è stato bellissimo vedere questo entusiasmo sincero. Significa che il messaggio è arrivato. Che il Festival ha toccato corde profonde. Naturalmente, certo, ha pesato anche presenza di un curatiore di lunga esperienza come Alessandro Riva, che in passato ha organizzato e curato mostre importanti non solo in Italia, e che dunque ha grande dimestichezza con ciò che è necessario fare per tenere alto il livello di un Festival atipico, innovativo e anche impegnativo come questo. Il suo contributo è stato fondamentale nella scelta e selezione degli artisti, cui abbiamo lavorato insieme in un clima di grande armonia e anche momenti di grande entusiasmo, e, cosa ancora più importante, nell’allestimento, che in luogo caratterizzato come questo è stata la sfida più importante e più delicata. Sfida che però siamo decisamente riusciti a vincere.

Giovanni Motta

Ci racconti i “dietro le quinte” di qualche opera in particolare?

Di aneddoti ne avrei a bizzeffe. Per l’opera di Giuseppe Veneziano, l’idea nasce da un suo quadro, che rappresenta un Superman che, volando, è andato a sbattere contro il soffitto, la sfida è stata trasformare un dipinto in scultura. E l’effetto finale è straordinario. Poi abbiamo avuto la performance di Giovanni Motta: ha voluto stampare per noi le sagome dei quadri appartenenti al suo ultimo ciclo, Lost Paradise, che è un progetto drammatico, post-apocalittico, in cui il suo classico personaggio, Jonni Boy, si vede circondato da un mondo in rovina e in decadenza. Per dar forza all’installazione, mi ha chiesto se avrebbe potuto dar fuoco a tutto la sera dell’inaugurazione. Naturalmente ho acconsentito, e l’idea si è rivelata geniale…

Anche Fabio Viale ha aderito al progetto.

Quando ho incointrato Fabio e gli ho parlato del progetto, avevo un po’ di timore perchè è un artista non siolo bravissimo, ma anche molti mpegnato e ha fama di essere molto selettivo. Invece mi ha colpito l’entusiasmo con cui non solo ha accettato l’invito, ma ha addirittura deciso di realizzare un’opera ad hoc per noi…

Il violoncellista Alessandro Branca sullinstallazione di Fabio Giampietro

E poi ci sono i cento televisori di Fabio Giampietro…

Sì, Fabio aveva quest’idea straordinaria, giocare con le sue immagini un po’ distopiche in mezzo a un cumulo di vecchi televisori… me ne ha parlato, e gli ho detto: che problema c’è? Così, in pochi giorni, sono riuscito a recuperarne cento… poi lui ha portato un musicista bravissimo, Alessandro Branca, e lo ha messo a suonare il violoncello proprio sopra ai televisori… alcune delle performace sono nate così, in maniera del tutto estemproianea.

Un vero festival interdisciplonare, pieno di sorprese e di colpi di scena.

Assolutamente. La parte più entusiasmante è stata proprio la partecipazione diretta degli artisti, che sono intervenuti in loco e hanno installato o addirittura finito le loro opere proprio qua. E il tutto, è stato fatto con l’entusiastico appoggio di tutti i ragazzi e gli operai di Cermec, che spesso sono diventati essi stessi protagonisti, a volte anche artisti in prima persona.

Corrado Bonomi

Già, infatti c’erano anche i tuoi “Plastic Cube”, vere e proprie sculture fatte di plastica compressa…

Sì, li considero simboli. Oggetti che parlano. Una bottiglia, quando è vuota, sembra non servire più a nulla. Ma se la comprimi, se la riassembli, se le dai un nuovo contesto, può diventare un’opera. È una metafora dell’umano: anche quando ci sentiamo inutili, possiamo rinascere, cambiare forma, trovare un nuovo significato. I Cube sono stati esposti a Milano, in Toscana, e hanno sempre generato discussione. Li considero un po’ le ambasciatrici silenziose del Festival.

Matteo Mandelli e Luca Baldocchi Fioriture sintetiche

E per il futuro del Festival? Cosa immagini che diventerà nei prossimi anni?

L’unica cosa certa è che andremo avanti. Il Festival Rifiutati ha già dimostrato di avere una sua forza, una sua identità. Diventerà un appuntamento fisso per Massa e Carrara, ne sono convinto. Ma chissà che non diventi anche qualcos’altro. Forse un modello replicabile, forse un format itinerante. Perché di rifiutati ce ne sono ovunque. E ovunque vale la pena raccontarli, facencoli diventare simbolo di inclusione e di recupero anche dal punto di vista sociale.

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