Il clamoroso furto dei gioielli di Napoleone al Louvre è ormai noto a tutti. Ne abbiamo parlato diffusamente su queste pagine, con un lungo e approfondito articolo di Alessandro Riva (La Grande Rapina al Louvre. Tutto quello che avreste voluto sapere sul furto dei Gioielli di Napoleone: dinamica, indagini, scenari internazionali), che analizzava sviluppi, retroscena e indagini di quello che è già stato definito “il furto del secolo”: un colpo messo a segno con metodo, velocità e siucurezza, utilizzando un camion con gru telescopica e soprattutto un montacarichi tedesco, il Böcker Agilo, con cui i ladri si sono arrampicati in una qualsiasi mattina di una domenica parigina per entrare nel museo da una finestra, per poi tornare indietro e svanire nel nulla.
Fin qui la cronaca. Ma è quello che è successo dopo ad aver sempre più trasformato il furto del Louvre in un piccolo caso medicatico e comunicativo. Perché, mentre gli investigatori inseguivano una pista europea, mentre all’aeroporto parigino di Roissy-Charles de Gaulle e in una non precisata zona della banlieu parigina venivano fermati due sospetti, e mentre la stampa parlava di una possibile regia criminale internazionale, in Germania qualcuno faceva una mossa che nessuno si sarebbe aspettato. Sul sito ufficiale della Böcker, la ditta che produce il montacarichi usato dai ladri, compare all’improvviso un messaggio pubblicitario. Una pagina sobria, neutra, quasi fredda, che recitava testualmente: “IF YOU’RE IN A HURRY. The Böcker Agilo carries your treasures up to 400 kg at 42 m/min – quiet as a whisper thanks to its 230 V electric motor” (“Se hai fretta. Il Böcker Agilo trasporta i vostri tesori fino a 400 kg di peso alla velocità di 42 metri al minuto – in modo silenzioso, grazie al motore elettrico da 230 volt”).
Un’idea che cammina sul filo della pubblicità borderline, quella che sfida il buon senso e cavalca l’attualità con un tempismo spietato. Già, perché solitamente la pubblicità non si rifà alla cronaca, ma agli stili di vita del periodo. È lì che scava per portare le persone a coltivare l’insana passione che ci rende tutti consumatori incalliti. Però, a volte, come dicevamo, può essere proprio la cronaca a prestare occasionalmente il fianco alla creatività, quella che nelle agenzie di pubblicità dovrebbe essere il primo e più importante degli strumenti da mettere a disposizione del cliente. Mi riferisco a due casi avvenuti a grande distanza di tempo ma che, nelle modalità di esecuzione, potremmo apparentare: il primo caso, appunto, è quello legato al furto al Louvre. Ma non è il solo, non è il primo, e non è neanche il migliore. Perché quarant’anni fa un’azienda, ben più famosa della Böcker, riuscì a fare molto di più: trasformò un fatto di cronaca in un’icona assoluta della storia della pubblicità. Ma andiamo con ordine, e facciamo un passo indietro.

Il centenario di Modì, e i fossi di Livorno passati al setaccio
Livorno, 1984. Centenario della nascita di Amedeo Modigliani, nato in quella città. Il Museo d’Arte Moderna decide di allestire una mostra in suo onore. La cura Vera Durbé, conservatrice dei musei civici della città. Da tempo, Vera, presta orecchio a intriganti chiacchiericci locali, diciamo “spifferi” che, se veri, potrebbero portarla a fare, della mostra, un evento internazionale. Infatti, secondo taluni – soprattutto anziani livornesi che della città tutto sanno – nel 1909, Modigliani, in preda ad una delle sue ricorrenti crisi di nervi, gettava nel Fosso Mediceo che taglia la città alcune sue sculture. La Durbé credeva da sempre che non fosse leggenda e ci credeva a tal punto da convincere il Comune a dare il via al dragaggio del fosso con la scusa della mostra in arrivo e dandone localmente ampio rilievo.
Peraltro, soprattutto chi abitava intorno al corso d’acqua, vedeva le scavatrici e gli operai all’opera, ed essendo al corrente degli obiettivi, iniziava a sperare in una Livorno sotto i riflettori mondiali dell’arte. Ma non c’erano solo i cittadini speranzosi ad aggirarsi intorno all’acqua…Livorno è città arguta – non a casa è nato lì Il Vernacoliere, unico giornale satirico che ha resistito ai decenni – e dunque, in agguato, c’erano giovani che volevano divertirsi alle spalle dei numerosi, secondo loro, creduloni. E dopo qualche giorno in cui le scavatrici tiravano su ogni genere di rifiuto urbano solido – che spesso finisce nei corsi d’acqua coltivando l’inquinatore la speranza che nessuno se ne accorga – ecco, vogliamo chiamarlo colpo di scena? Una dopo l’altra, con facili nomi da reperto rinvenuto e assegnati dalla Sovrintendenza in tempo reale – Modì1, Modi2… – tre teste granitiche vengono tirate su – grondanti acqua e fanghiglia – dalla ruspa; la curatrice viene immediatamente convocata sul posto. Ma certo, eccole – deve aver pensato la Durbé – è lui, è Modigliani, e chi altrimenti, con quel suo classico stile esotico, volti affilati, sguardi da Moai dell’Isola di Pasqua. Il severo e notissimo critico d’arte Giulio Carlo Argan spalleggia la Dubré, insomma non si parla d’altro e Livorno entra nella scena mediatica, come si auspicava.

La burla viene allo scoperto
Mentre il mondo accademico e quello delle gallerie – nonché i collezionisti di Modì – iniziano a distanza il dibattito, propendendo la maggioranza che le teste fossero originali, la burla ad orologeria sta per entrare in scena. Tre studenti livornesi si pentono, il caso sta montando eccessivamente rispetto alle loro aspettative di ritorno che, probabilmente, erano più che altro locali. Prendere in giro o fare uno scherzo ai propri concittadini era la vera intenzione burlesca, non volevano “scherzare” il mondo intero ma quasi incentivare quella penosa ricerca infruttifera. Da giovani, quando una “marachella” va oltre le intenzioni, ci si pente immediatamente. “Siamo stati noi, volevamo fare uno scherzo divertente”. Questa la confessione liberatoria dei tre studenti. Fortunati, all’epoca, i critici che non si esposero e gli storici d’arte che avevano negato la paternità di Modigliani e ai quali i conti non tornavano; sullo stato d’animo della Dubré meglio non indagare.
Per il mondo dell’arte fu uno scherzo epocale. Leggendario. Sia per come fu organizzato ma anche per le reazioni mediatiche esagerate. I dietrofront dei coinvolti, una volta saputa la verità, ricordavano quando a tavola non riesci a mandare giù un boccone e, senza farti vedere, delicatamente lo accartocci nel tovagliolo. Livorno tutto sommato è una piccola città Toscana ed essere al centro dell’attenzione non era l’intenzione primaria né degli studenti burloni né dei pacifici, seppur riottosi, livornesi che vivono prevalentemente di Accademia Navale, di pesca, di lunga spiaggia cittadina, di cacciucco e di solidissime e rigorose basi ideologiche. Quando i tre studenti decidono di confessare tutto in esclusiva al magazine Panorama dissero una cosa anche sentimentale: “Visto che, dopo alcuni giorni di dragaggio, gli operai non trovavano nulla nel fosso, se non biciclette ed elettrodomestici arrugginiti e – potevano mancare? – vecchie scarpe, una sera abbiamo deciso noi di fargli trovare quello che cercavano!”. Insomma uno scherzo a fin di bene. I ragazzi individuarono delle pesanti pietre grezze, iniziarono a guardare i disegni di Modigliani, probabilmente, siamo nel 1984, su un’enciclopedia o libri di storia dell’arte e, con martello, scalpello e trapano, si ingegnano per far sì che le teste somiglino a quei disegni del Maestro. Il trambusto successivo, esploso nel mondo accademico una volta saputa la verità, ve lo risparmiamo perché è facile immaginarlo. Il termine “falso”, nell’arte, delimita e pone in lite gli esperti. Ma da anche da mangiare ai medesimi, perché, coloro interessati alla verità, sono disposti a pagare. Ma in questo caso, l’irrituale confessione dei falsari, scombinò qualsiasi tradizione.
Ho scritto più su che i tre ragazzi livornesi – per dare forma alle pietre trasformandole in credibilissimi falsi – avevano utilizzato martello, scalpello e trapano. Parlando di trapani sappiamo che c’è una marca, tedesca, che potremmo definire una “marca sineddoche”. Per capirci come Jeep, Scottex o Bic. Puoi comprare un’auto fuoristrada o una penna a sfera ma sempre Jeep o Bic saranno, anche se di marca diversa. Insomma, lo si sa, nei trapani il patronimico lo battezza la ditta Black&Decker. In realtà gli studenti livornesi – preda di quei 15 minuti di notorietà che tutti prima o poi possiamo avere e di cui parlò Andy Warhol – dissero che, per perfezionare lo scherzo, avevano utilizzato un trapano Black&Decker.

Come nasce una pubblicità leggendaria
Milano, sera tardi, corridoio della JWT, un’importante agenzia di pubblicità internazionale. Ricordo esattamente quella sera, perché c’ero anch’io. Lavoravo già nel mondo della pubblicità, avevo amici e amiche nelle più diverse agenzie e mi capitava spesso di passare a trovare degli amici in qualche agenzia “amica” e di rimanervi fino a tardi, quando il lavoro rallentava e finalmente ci si poteva permettere il lusso di parlare d’altro. Un televisore acceso, qualche battuta, una sigaretta fuori dalla porta… Fu in una di quelle sere che entrò nelle nostre vite, del tutto inaspettatamente, la storia delle teste di Modigliani. Quella sera, in TV, scorrevano le immagini prima del dragaggio nel fosso di Livorno, della Durbé convocata sul posto, dei critici che si dividevano sulla scoperta, e poi della notizia, fresca fresca, della confessione dei tre studenti “burloni”. “Per scolpirle”, aveva detto poco prima uno di loro, “abbiamo usato un trapano Black&Decker.” Quella frase rimase sospesa per qualche secondo, come se avesse bisogno di un po’ di tempo per trovare la sua strada. Ancor prima di prendere effettivamente coscienza che la società Black&Decker era un cliente storico di quella agenzia a livello europeo (cioè seguito in diverse nazioni dalla medesima agenzia), un giovane copywriter, all’epoca borsista, mentre ascoltava – evidentemente colpito – la notizia del ritrovamento e della burla, e le chiacchiere di quelli che allora erano i suoi capi, appena il servizio sfuma, alza coraggiosamente la voce e, con inconfondibile accento milanese, dice: “beh, grazie al…, è facile essere bravi con Black&Decker!”.
È facile essere bravi con Black&Decker
Tra il dire e il fare, quella volta, non ci fu di mezzo il mare. Una grande agenzia di pubblicità sa come muoversi e quella sera le luci del palazzo della grande agenzia nel centro di Milano furono spente a notte inoltrata. I quotidiani, all’epoca, chiudevano molto tardi. Si potevano inviare o consegnare le pagine di pubblicità in orari oggi impensabili. La mattina dopo, senza badare a spese e sicuramente dopo l’approvazione del cliente che doveva fidarsi della filiale italiana per accettare un’uscita così estrosa, i giornali nazionali avevano tutti, indistintamente, una pagina piena che riprendeva in grafica le teste realizzate dai giovani livornesi e il pay-off più acuto, più immediato, più divertente, che la pubblicità “casuale” abbia mai realizzato. Perché, da allora, tutti realizzarono che era facile “essere bravi con Black&Decker” .

L’idea è geniale, ma manca il claim
Oggi, dunque, quarant’anni dopo quella leggendaria pubblicità della Black&Decker, un’altra azienda, la tedesca Böcker, prova a ripetere del successo di quell’idea indimenticabile. Oggi, però, a differenza di un tempo, appare chiaro che la società tedesca si è portata avanti da sola, senza rivolgersi ai professionisti della pubblicità. L’idea c’è, per carità (e chissà quanti altri ladri di tesori d’arte si sono detti nei loro covi: “La prossima volta ci muoviamo con il Böcker Agilo!”), ma per entrare nell’immaginario (e nella storia), forse avrebbero dovuto fare uno sforzo in più. Bastava, dopotutto, scrivere una semplice frase, più secca, più veloce, ma anche più incisiva: “Böcker Agilo. Nella storia dell’arte”.


