Gen Z. Omar Ndiaye: “Libertà è un’arte senza definizioni né confini. Che dia voce a chi non ce l’ha”

Corpi in procinto di sfaldarsi, anatomie fragili che sembrano pronte a mutare forma non appena distogliamo lo sguardo. Sono queste le figure di Omar Ndiaye, giovane artista milanese, classe 2003.
La sua è un’indagine sull’anatomia umana: un percorso che parte da un ideale classico, studiato e indagato con rigore, per poi essere volutamente distrutto, deformato, allontanato anni luce da ciò che il mondo riconosce come “perfezione”. Omar mette in scena personaggi che ci parlano, che ci restituiscono il loro stato inquieto e informe, la naturale familiarità con esso, perfino il piacere che trovano nel viverlo. Figure che si offrono senza difese, per ciò che realmente sono: corpi che si toccano, si fondono, sprofondano in una comune beatitudine. Creature in armonia con se stesse, tra loro e con noi, sospese nella propria forma incerta, abbandonate al piacere che nasce da quella stessa imperfezione.

L’espressività, nelle sue opere, non è solo psicologica ma anche cromatica. Le tonalità che le attraversano sono cupe e misteriose, come se volessero sussurrarci un segreto ancora nascosto. Le linee di contorno definiscono le figure per poi dissolversi dolcemente verso il fondo, in uno spazio solido ma ovattato, che si fa notare senza imporsi. Lo sfondo sembra riflettere lo stato d’animo dei personaggi: come se potessimo guardarli dentro, o come se fossimo noi a condividere il loro sentire. Le forme si dissolvono, ma la loro interiorità resta, viva e pulsante.

Omar Ndiaye Senza titolo 5 2025 mixed media

La figura raggiunge la propria completezza, il culmine di questo processo, quando si fonde con quella animale: non semplice emblema di vita e istinto, ma incarnazione di un’entità perfetta. L’uomo si avvicina così a una purezza primordiale; e non solo lui, perché anche l’animale si stringe a un essere integro, autentico, autarchico nella propria imperfezione. Le due anime trovano conforto l’una nell’altra, nell’istante in cui perfetto e imperfetto si incontrano e si abbracciano in un’eterna danza d’amore. L’uomo, nelle opere di Omar, diventa specchio di ciascuno di noi: porta con sé fragilità e inquietudini, ma anche il coraggio di accoglierle e di amarsi attraverso di esse.

L’universo delle sue immagini si manifesta in una dimensione digitale che sfugge alla realtà tangibile — una realtà altra che, per noi della Generazione Z, tanto “altra” ormai non è più. L’uso del linguaggio digitale assume così un valore simbolico: ogni giorno i nostri occhi sono attraversati da immagini nate nel mondo virtuale, quasi sempre corpi idealizzati. Omar rompe questo schema, portando sullo schermo corpi sinceri e senza filtri. La sua arte si fa portatrice di valori come accettazione e autenticità, celebrando la vulnerabilità e invitando chi guarda le sue opere a essere vero, con se stesso e con gli altri. A noi della Generazione Z, come a tutti, non fa male ricordarlo ogni tanto.

Omar Ndiaye

Omar, come è nato il tuo amore per l’arte?

La mia passione per l’arte affonda le radici nell’infanzia. La mia famiglia è sempre stata immersa in un ambiente artistico: il mio bisnonno era un pittore, e la casa dei miei nonni è sempre stata piena di quadri collezionati nel corso degli anni durante i loro viaggi. Crescere in mezzo a queste opere ha acceso in me una naturale curiosità e sensibilità verso l’arte. Anche mia madre ha avuto un ruolo fondamentale in questo percorso: è una truccatrice, e grazie a lei ho avuto modo di avvicinarmi fin da piccolo al mondo del cinema e del teatro, realtà che ancora oggi mi affascinano profondamente e che hanno influenzato il mio modo di guardare e vivere l’arte.

Come si è evoluto il tuo linguaggio artistico a livello tecnico nel corso del tempo?

A livello tecnico, l’evoluzione del mio linguaggio artistico ha avuto una svolta decisiva all’inizio del mio percorso in Accademia. È stato proprio in quel momento che ho deciso di unire il disegno a mano a quello tecnologico, finché non ho scelto consapevolmente di mettere da parte la pittura tradizionale per dedicarmi completamente alla dimensione digitale, digitale, un linguaggio che sentivo già mio da tempo e che mi ha permesso di trovare finalmente una mia identità artistica, anche attraverso la scelta dei soggetti che tratto nelle mie opere.
Sin dall’infanzia ho nutrito una forte attrazione per il digitale: mi sono avvicinato molto presto a programmi come Photoshop e passavo ore a guardare video su YouTube di artisti che si cimentavano nella pittura digitale. Quella curiosità iniziale è diventata con gli anni una passione solida, che ho deciso di coltivare e approfondire. Non ho deciso di rinnegare questo medium, spesso discusso o sottovalutato, ma al contrario ho scelto di abbracciarlo pienamente.

C’è stata una figura di riferimento – un mentore, un’artista o un’influenza – che ti ha accompagnato in questi anni nel tuo percorso artistico?

Le figure a cui mi ispiro appartengono principalmente al mondo dell’illustrazione, del fumetto e dell’animazione. Ho sempre amato Ralph Bakshi, regista e animatore visionario, i cui film e cartoni animati occupano da sempre un posto speciale nel mio cuore. Mi influenzano molto anche Tim Jacobus, celebre per le copertine della serie Piccoli Brividi; John Dilworth, creatore di Leone il cane fifone; e Robert Crumb, leggendario fumettista.
Se da questi autori ho tratto ispirazione sul piano tecnico e stilistico, è stato invece Pablo Picasso a influenzare profondamente l’indirizzo della mia ricerca espressiva. Da lui ho ereditato l’interesse per la rappresentazione di figure ibride che si muovono al confine tra umano e animale, che sono diventate una componente centrale della mia arte. Queste creature simboliche, ormai profondamente radicate nel mio immaginario, rappresentano per me il raggiungimento della perfezione. Oltre a Picasso, ammiro profondamente artisti come Kerry James Marshall, Marlene Dumas e David Hockney. Mi attraggono anche tutti quegli artisti che, attraverso l’arte, riescono a dare voce alle minoranze.

Omar Ndiaye Senza titolo 2024 mixed media

Ci sono temi ricorrenti nella tua arte, simboli o figure a cui sei particolarmente affezionato?

Ho sempre dato molta importanza all’anatomia e alla rappresentazione della realtà, concentrandomi sul riuscire a raffigurarla al meglio per poi decostruirla. Per anni ho lavorato sulla figura del cigno, per poi spostare l’attenzione sul cavallo, che è ormai diventato un elemento fondamentale nella mia arte. In questa figura ho sempre visto una grande espressione di forza e un simbolo del tentativo di raggiungere la perfezione. Partendo da ciò che, per me, incarna l’ideale perfetto, inizio a deformarlo e contaminarlo, rompendo così quell’immagine idealizzata che il cavallo rappresenta.
Da qui nasce il mio interesse verso la figura ibrida: non tanto in chiave mitologica, quanto piuttosto come entità deforme, che vive con la scelta e la piena consapevolezza del proprio stato. In sostanza, a controbilanciare questa tensione verso la perfezione, sono arrivate poi le figure informi, che hanno liberato la figura. Questa ricerca mi ha portato a concentrarmi anche sul concetto di brutto e di informe a livello identitario. Tuttora sto continuando a lavorare sul concetto di corpo e di deforme, partendo da un’iscrizione quasi chirurgica e fotografica di corpi e di pelli che rappresentino anche la mia stessa pelle. A tal proposito, un altro elemento a me caro è quello della pelle scura. Io penso che in Italia ci sia una forte carenza di figure di riferimento in cui una giovane persona nera si possa rispecchiare. L’unico modo per portare nella cultura queste figure, da artista, è crearle.

Omar Ndiaye Transumanità 2025 mixed media

Pensi che la tua arte abbia un ruolo di denuncia sociale, o rifletta una dimensione più intima e personale? O, forse, entrambe le cose convivono nel tuo lavoro?

Non penso che la mia arte abbia un ruolo di denuncia sociale, ma piuttosto il mio è un atto di
rappresentazione consapevole. Spesso ho notato che, nelle opere di artisti contemporanei, la presenza di soggetti appartenenti a minoranze è qualcosa che dev’essere giustificata. Per esempio, la presenza di una persona con la pelle scura deve avere sempre un motivo che giustifica la sua presenza in un quadro. Lo scenario che cerco di portare io, invece, vuole mettere le minoranze sotto una luce diversa, che prescinda da qualsiasi giustificazione, offrendo una rappresentazione che non abbia bisogno di spiegazioni. I miei personaggi non esistono per “giustificarsi”, ma esistono perché fanno parte della realtà in cui vivo.
Esco di casa e vedo un’Italia estremamente diversificata: persone provenienti da ogni parte del
mondo, con culture, lingue, usanze e cibi differenti. Questo è il mondo che mi circonda ed è
naturale, per me, volerlo riflettere nella mia arte. In questo senso, anche se non intendo le mie opere come denuncia sociale, forse chi le guarda può comunque cogliervi una forma di affermazione politica, di presa di posizione. Ma è qualcosa che nasce dalla normalità della mia esperienza quotidiana, non da un intento moralizzante.

Come vedi l’evoluzione della pittura nell’arte contemporanea? Pensi che la pittura digitale possa essere considerata al pari di quella tradizionale?

Pittura e arte sono concetti che non hanno davvero un limite di definizione. Spero che l’evoluzione della pittura la porti a riuscire a dialogare con più medium e liberandosi sempre più dalle etichette. Sono fermamente convinto che la pittura digitale possa essere considerata al pari di quella tradizionale, pur sapendo che non si tratta di un’opinione ancora condivisa da tanti. Esiste un’idea ben radicata e prestabilita di cosa sia la “vera” pittura, e la pratica digitale spesso fatica a esservi riconosciuta. Mi è capitato spesso di scontrarmi con professori o studenti che avevano preconcetti nei confronti della pittura digitale, proprio per la sua apparente impossibilità di essere percepita fisicamente. Questo si collega direttamente anche al contenuto dei miei lavori: rappresento corpi che, in quanto deformi, non possono essere percepiti fisicamente secondo i canoni tradizionali. Credo che l’uso di più tecnologie nell’arte sia il segno di un cambiamento profondo: il corpo stesso dell’arte si sta trasformando, diventando più fluido. Questo riflette la società in cui viviamo, anch’essa fluida, digitale, difficile da limitare o rinchiudere in definizioni rigide. Il mondo in cui viviamo oggi funziona grazie a macchine che, pur avendo un potenziale alienante, possono anche assumere un ruolo estremamente utile. Trovo inoltre assolutamente comprensibile che un artista scelga di lavorare seduto, all’interno di una dimensione digitale: uno spazio apparentemente racchiuso in una scatola di alluminio, ma che in realtà è sconfinato.

Omar Ndiaye Grafica in collaborazione con Afrobodega 2024 mixed media

Vuoi parlare della tua collaborazione con il mondo della moda? In che modo moda e arte dialogano nel tuo lavoro?

Ho conosciuto il team di Afrobodega, un brand di moda, un paio di anni fa tramite i social. Avevo già visto per caso alcune foto dei loro capi e ne ero rimasto subito colpito: la loro estetica mi aveva attratto fin da subito. Quando mi è stata proposta una collaborazione, ho accettato senza esitazione. In un primo momento mi sono occupato dei disegni per i volantini che accompagnavano le loro collezioni, raffigurando i miei personaggi con indosso i loro capi. Successivamente, ho iniziato a lavorare direttamente alle grafiche da applicare sui vestiti. Mi piace collaborare con loro perché il loro stile è molto inclusivo e fortemente legato allo streetwear. Questa esperienza mi ha portato fuori dalla mia comfort zone, costringendomi a entrare in un’ottica di rappresentazione diversa dalla mia. Cercare di adattare la mia arte alle esigenze di qualcun altro non è stato semplice, ma è stato estremamente formativo, ed è proprio grazie a questa esperienza che spero di entrare sempre di più in dialogo con mondi diversi dal mio. Lavorare nel campo della moda mi piacerebbe moltissimo. Vorrei portare in questo ambito ciò che sto sviluppando nella mia ricerca artistica: corpi non convenzionali, nonché corpi estremamente comuni. Mi interessa introdurre nella moda la dimensione del deforme, che raramente trova spazio in questo contesto. La moda è uno strumento potentissimo nella costruzione dell’immaginario legato al corpo: credo quindi che possa diventare un mezzo attraverso cui sensibilizzare maggiormente sul tema del corpo non idealizzato, che è al centro della mia pratica pittorica.

Illustrazione, pittura digitale, moda: secondo te, qual è il confine – se esiste – oltre il quale una disciplina creativa può essere definita “arte”?

Per me non esiste un confine preciso che determini cosa sia arte e cosa non lo sia. L’arte si basa su ideologie estremamente soggettive, e il dibattito su cosa rientri o meno in questa definizione cambia nel tempo e da cultura a cultura, arrivando talvolta ad assumere significati completamente opposti. Personalmente considero arte qualsiasi creazione umana capace di generare, in chi la fa o in chi la osserva, un sentimento di qualunque tipo. Per questo credo che illustrazione, pittura digitale e moda possano tutte essere considerate forme d’arte. Nel caso della moda, però, la forte componente commerciale può portare a una sorta di “desensibilizzazione” nei confronti del suo potenziale artistico. Ma questo non toglie valore alla sua capacità espressiva.

Omar Ndiaye Transumanità 2025 mixed media

Ti consideri parte di un movimento o una tendenza più ampia? E come vedi il ruolo dei giovani nel panorama artistico contemporaneo?

Da un lato, mi sento parte di una tendenza più ampia, perché riconosco nei miei lavori dei temi e delle estetiche che appartengono al nostro tempo: la diversità, l’ibridazione, la fusione e talvolta anche la confusione identitaria. Non credo che la mia arte nasca dal nulla o da un’immaginazione totalmente slegata dal contesto: è anzi profondamente connessa alla cultura contemporanea e affonda le radici in riferimenti artistici anche storici — basti pensare a come il tema dell’ibrido fosse già presente in Picasso, per esempio. Allo stesso tempo, però, non riesco a sentirmi davvero parte di un movimento collettivo. Gli artisti che percepisco come più vicini a me per linguaggio o tematiche sono spesso molto distanti geograficamente, magari vivono e lavorano in contesti lontani dal mio. Questa distanza fisica rende difficile creare un senso di appartenenza reale, concreto. Per quanto riguarda i giovani nel panorama artistico contemporaneo, li vedo come una speranza, ma personalmente non ripongo tutta la fiducia a un giovane artista solo in quanto giovane, piuttosto mi affido a persone che non hanno voce in capitolo e che sperano sempre più di farsi sentire.

Noi della generazione Z ci troviamo a vivere un periodo storico caratterizzato da angosce, conflitti e incertezze. Molti giovani artisti esprimono questa inquietudine attraverso la loro arte. Ti riconosci in queste tematiche e le vedi riflettersi anche nel lavoro degli artisti della nostra generazione che ti circondano?

Mi riconosco pienamente in questo stato d’animo. Allo stesso tempo, però, trovo confortante il fatto che questa dimensione di inquietudine, in cui molti di noi vivono, venga oggi messa allo scoperto. Dal punto di vista artistico, noi della Generazione Z abbiamo dato forma a questa angoscia attraverso la nostra produzione: è qualcosa che emerge in modo evidente.

Omar Ndiaye Senza titolo 2025 mixed media

Guardando al futuro, quali sono i tuoi obiettivi come artista? Dove ti vedi tra qualche anno, in termini di crescita e progetti?

In futuro mi auguro di riuscire a unire diverse dimensioni artistiche – illustrazione, pittura,
animazione, fumetto e altro ancora – senza limiti, anzi, facendo di questa contaminazione un punto di forza riconosciuto e valorizzato. Vorrei portare avanti progetti che mettano in dialogo questi linguaggi, esplorando nuove forme espressive. Mi piacerebbe entrare nel mondo dell’art direction e, perché no, anche della regia, per costruire narrazioni complesse che non si affidino solo al disegno, ma anche alla parola. Sento anche il desiderio di lavorare a contatto con le persone, di vivere l’arte come un’esperienza condivisa. In sostanza, non voglio mai sentirmi limitato da un ruolo definito o da etichette precostituite. Come artista, aspiro a essere molte cose insieme, e a restare libero.

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