C’è un artista, in Italia, che da anni costruisce mondi come fossero sogni manga, visioni adolescenziali scolpite nel plexiglass della memoria. Uno che prende sul serio la nostalgia, ma la disegna in fluo. Che racconta il bambino interiore come se fosse il protagonista di un anime: coraggioso, solitario, sospeso in eterno tra salvezza e rovina.
Quel bambino si chiama Jonny Boy, ed è il è il protagonista, l’alter ego, e il simbolo ricorrente di tutto l’immaginario espressivo di Giovanni Motta, uno dei nomi di punta della nuova scena Neo Pop italiana. Da anni al centro della sua ricerca visiva tra pittura, scultura e linguaggi digitali, Jonny Boy è ora al centro di un progetto artistico che è insieme performance, installazione immersiva e romanzo visivo post-apocalittico.
Lost Paradise (aperto solo questa ad Assab One, storico spazio indipendente per l’arte contemporanea ospitato in una ex area industriale milanese, dalle 19 alle 23, ndr) non è una mostra, ma un esperimento totale. È un mondo che finisce e che rinasce. È una liturgia pagana, un manga teatrale, un horror etico e un videogioco psicologico. Tutto insieme. Dentro, ci troveremo 15 sagome dipinte a mano di Jonny Boy, ognuna con la sua identità archetipica – Gesù, l’androide, il guerriero, l’Amleto, il poeta – che incarnano una giovinezza salvifica, disperata e potente. Ma troveremo anche una grande gabbia. Dentro, ci sono i “furbi”: colpevoli mascherati, specchiati, silenziosi. Dotati di grandi maschere specchianti. Fuori, lo spettatore, che li guarda e si riflette. Fino a mangiarli, simbolicamente, in un bar allestito dai superstiti del mondo – perché nel Lost Paradise si servono sfilacci di furbo, piscio di furbo, occhi di furbo. Tutto vegano, certo. Ma servito come fosse un rito cannibale.

Non è arte “da parete”, una mostra da osservare e giudicare. È un gioco maledettamente serio, un’esperienza alla Blade Runner che sembra filtrata dallo sguardo di un Giovanni Pascoli redivivo – il poeta del “fanciullino” -, sotto acido lisergico. Dentro ci sono Marcel Proust con la sua intramontabile nostalgia dell’infanzia e del tempo perduto, ma anche Matrix, Akira, il Silenzio degli innocenti e un tocco di escatologia messianica. E c’è, soprattutto, la consapevolezza che l’arte non basta guardarla, va vissuta. Va annusata, gustata, sperimentata, e anche mangiata (letteralmente): attraversata, sentita come si sentono la nostalgia, la malinconia, la rabbia. O lo spirito di un tempo sempre più incerto e sempre più imbizzarrito, che un giorno sì e uno no sembra evocare lo spettro di una tragedia imminente.
Giovanni Motta lo distrugge simbolicamente, questo mondo, e ci invita a entrare nelle sue rovine. Ma mentre tutto brucia, ci ricorda che il bambino interiore è l’unico superstite che vale la pena salvare.
In questa intervista esclusiva, l’artista si racconta e ci racconta questo nuovo capitolo della sua saga di Jonny Boy, il bambino interiore che rappresenta paure, speranze, ingenuità e paradossi della nostra anima di donne e uomini cresciuti, ma mai del tutto.

Lost Paradise è molto più di una mostra: è un mondo, un esperimento immersivo e teatrale che rompe gli schemi consueti della fruizione artistica. Da dove nasce l’idea?
È un progetto che nasce da un’urgenza molto personale. Negli ultimi anni, soprattutto nei miei viaggi in Oriente, mi sono trovato a dover spiegare costantemente le mie opere. Gli interlocutori erano affascinati da Jonny Boy, ma avevano bisogno di una chiave di lettura, mi facevano mille domande, volevano decodificare tutto. Eppure, per me, l’arte dovrebbe parlare da sola. Così ho voluto ribaltare la logica. Ho scelto di costruire un’esperienza in cui non ci fosse più bisogno di spiegare: niente teorie curatoriali, niente voci esterne, solo un percorso da vivere, da attraversare con il corpo e con le emozioni. Lost Paradise è un ambiente immersivo che dura mezz’ora, ma che cerca di raccontare una storia intera. Una storia in cui tutto è finito, e in cui l’unico superstite è l’idea, o meglio l’astrazione, della giovinezza.
E questa astrazione si incarna, ancora una volta, nel tuo personaggio simbolo: Jonny Boy. Ma stavolta in una forma nuova…
Esattamente. Per la prima volta, Jonny si moltiplica, si trasforma, prende quindici fisionomie diverse. Ho realizzato quindici sagome in legno, tutte dipinte a mano, che rappresentano versioni differenti dello stesso archetipo: il pastore, il poeta, l’androide, il guerriero, il capo di una gang, l’Amleto shakespeariano, perfino una figura ispirata a Lecter che tiene in braccio un agnellino – un riferimento diretto a quella celebre scena del Silenzio degli innocenti. E poi c’è Gesù, che ho voluto chiamare Jesus proprio per rimarcare il suo valore simbolico più che religioso. Ogni figura rappresenta un’idea di salvezza, un tentativo di sopravvivere all’annientamento. In fondo, sono tutti frammenti del bambino interiore che non vogliamo dimenticare.

In queste sagome c’è qualcosa di più drammatico, anche visivamente. Come se Jonny Boy avesse attraversato un inferno.
È vero. In passato, Jonny aveva una dimensione più sospesa, più eterea, quasi ingenua. Qui invece lo vediamo entrare dentro delle narrazioni, attraversare dei conflitti. È sempre lui, ma è anche altro. E c’è un elemento simbolico molto forte: in uno solo dei quindici Jonny Boy, quello ispirato a Jesus, ho modificato lo sguardo. Gli ho dato occhi illuminati, cosa che non faccio mai, perché il volto di Jonny di solito è uno specchio neutro per chi guarda. Stavolta, invece, ho sentito il bisogno di segnare un’eccezione: quella figura doveva avere qualcosa di diverso, una luce propria.

Le figure salvifiche da una parte, e dall’altra… i colpevoli. Raccontami della gabbia dei “furbi”.
La gabbia è il cuore oscuro dell’installazione. Al suo interno ci sono i “furbi”: figure umane in tuta colorata, con maschere a specchio, ognuna numerata. Sono dei performer reali, vivi, che si muovono lentamente, osservano, provocano. Ma la maschera riflette. Chi guarda, vede se stesso. È una provocazione, certo, ma non un atto d’accusa: io non voglio giudicare. Anzi, dico che i colpevoli siamo tutti noi. Il “furbo” è un’astrazione: è chi antepone il proprio vantaggio al bene comune, chi alimenta il cinismo, l’opportunismo, l’inerzia. E in questo, nessuno è innocente del tutto. La differenza, forse, è solo che alcuni sono stati presi e rinchiusi, e altri no.
Ma poi si entra nel Lost Paradise vero e proprio. E lì succede qualcosa di ancora più disturbante.
Esatto. A un certo punto, mentre si attraversa lo spazio, si sente odore di carne bruciata. È lì che il percorso cambia tono. Si apre una porta e si entra nel bar Lost Paradise, costruito dai sopravvissuti. Qui viene servito un menù molto particolare: “palle di furbo”, “sangue di furbo”, “sfilacci di furbo”, “occhi di furbo”… Ovviamente è tutto vegano, progettato con uno chef vero, ma il punto non è il cibo in sé: è la scena. Ogni dieci minuti, due figure gigantesche prelevano un furbo dalla gabbia e lo “portano” al bar per essere simbolicamente macellato. Gli spettatori, senza rendersene conto, diventano partecipi. È un rito cannibale travestito da fast food. Un modo ironico e feroce per dire che, nel mondo che abbiamo distrutto, ci nutriamo gli uni degli altri. Ma è anche un gioco. Un gioco insieme sorprendente, divertente e dannatamente serio.
Questo tuo nuovo lavoro ha un’impronta molto forte, quasi apocalittica. Da dove arriva questa virata?
In realtà è una svolta solo apparente. La mia ispirazione è sempre stata legata al mondo degli anime giapponesi, della narrativa distopica, della fantascienza con radici etiche. Pensa a Conan il ragazzo del futuro, Akira, Pluto, Kiashan, Matrix, Blade Runner… sono tutte storie che parlano di fine del mondo, ma anche di una possibile rinascita. Questo immaginario mi accompagna da sempre, insieme alla letteratura – Proust, Pascoli, Hillman – e alla meditazione come pratica creativa. Però è vero che oggi tutto questo suona più vicino, più vero. Quando ho cominciato a pensare a Lost Paradise, dieci mesi fa, non c’era ancora l’eco geopolitica che viviamo ora. Ma poi è esploso tutto: Gaza, Ucraina, guerre, devastazioni. Senza volerlo, il progetto ha iniziato a risuonare con l’attualità. È diventato profetico. Ma la sua è una profezia ciclica, non legata al momento: quello che rappresenta si è ripetuto mille volte nella storia. E può accadere ancora.
Il tuo Jonny Boy, allora, resta sempre sospeso?
Sempre. Nella locandina della mostra, che è anche il primo dipinto della mia nuova collaborazione con una galleria londinese, Jonny è lì, sospeso. Ma non si capisce se stia venendo verso di noi o stia per dissolversi. È quella condizione ambigua, liminale, che mi interessa. La salvezza non è mai certa. Ma la tensione verso di essa, quella sì, è necessaria.

E in questo processo, lo spettatore è ancora un fruitore passivo?
No. Non può più esserlo. È parte della scena, quasi senza accorgersene. Io credo che oggi le persone siano stanche di “guardare” arte. Vogliono sentire qualcosa, ma non sanno più come. Viviamo in un tempo sincopato, iperconnesso, incapace di attenzione profonda. Tutto è filtrato dallo schermo. Io ho voluto creare un’esperienza che restituisse peso al corpo, al tempo, all’olfatto, all’emozione. E credo che l’unico modo per farlo sia riattivare quel nucleo emotivo che chiamo “bambino interiore”. È lì che torniamo a sentire.
E l’Intelligenza Artificiale? Che ruolo ha avuto in tutto questo?
È stata una complice, non una sostituta. Ho usato le AI per creare alcuni personaggi, per realizzare i video promozionali, per animare certe sequenze che avrebbero richiesto ore e ore di rendering manuale. Per esempio, per animare un semplice drappeggio al vento, con i software classici ci vogliono giorni. Con l’intelligenza artificiale, diventa intuitivo, fluido. Ho anche scritto una canzone – quella che gira in loop nella gabbia – e l’ho fatta cantare a una voce AI, ed è già disponibile su Spotify. Insomma, la tecnologia mi ha aiutato a estendere il mio raggio d’azione, non a sostituirlo. È uno strumento, non un oracolo.

Ultima domanda. Cosa dovremo aspettarci, dopo Lost Paradise, per Jonny Boy? Crescerà, finalmente? O, come Peter Pan, rimarrà per sempre bambino?
Rimarrà bambino, ma non per scelta romantica o per paura di crescere. Rimarrà bambino perché quello sguardo – essenziale, aperto, ancora capace di stupirsi – è forse l’unico in grado di cogliere ciò che ci sfugge quando crediamo di aver capito tutto. Dopo Lost Paradise, sto lavorando a un nuovo evento, sempre a Milano. Se lì tutto si distrugge, qui qualcosa si ricostruisce: madre natura si è ripresa la scena, ha rimesso ordine. Ci sarà una fonte – un luogo quasi sacro, quasi ludico – dove si potrà bere una sostanza che promette di tenerti bambino per sempre. Ma non sarà un paradiso: sarà uno scenario nuovo, pieno di ostacoli, dove la sopravvivenza dell’innocenza non è garantita. Non è un ritorno, non è una redenzione. È solo il tentativo di immaginare cosa resta, quando tutto sembra finito. E se vale ancora la pena di difenderlo.