C’è un momento, nei film dei fratelli Coen, in cui la logica si sgretola e la realtà si trasforma in un caleidoscopio di disarmante e tragicomica assurdità. Quella stessa sensazione — di perplessità allegra e di meraviglia disordinata — accompagna lo spettatore di Honey Don’t!, seconda incursione solitaria di Ethan Coen dietro la macchina da presa e cuore centrale di una trilogia queer e sgangherata iniziata con Drive-Away Dolls.
Ethan si muove con sicurezza tra gli schemi dell’hard boiled, omaggiando apertamente Robert Altman e John Huston, e al contempo flirtando con la carne viva dei grindhouse di Russ Meyer e con la satira corrosiva di John Waters. Il risultato è un film che ride di sé stesso e della propria genealogia cinematografica, un’opera che non teme di scombinare le carte e di lasciare lo spettatore sospeso tra il riso e l’inquietudine.

Al centro della vicenda c’è Honey O’Donahue (Margaret Qualley), investigatrice privata californiana alle prese con un mistero che sembra semplice solo in superficie: la morte di una donna, forse un incidente, forse un omicidio. L’indagine la trascina in un labirinto di eccentrici e inquietanti personaggi, a partire dal carismatico e ambiguo leader religioso interpretato da Chris Evans, passando per la poliziotta MG Falcone (Aubrey Plaza), con cui Honey intreccia una relazione passionale che sfida la mascolinità tipica del noir classico.
Non aspettatevi da Honey Don’t! un thriller rigoroso: il divertissement è dichiarato e si muove con leggerezza tra gag surreali, dialoghi fulminanti e situazioni tanto improbabili quanto irresistibili. È un film che gioca, che ribalta stereotipi, che ci ricorda come i Coen sappiano trasformare anche il grottesco in una lente per osservare la società contemporanea — qui con pungente ironia sugli estremisti MAGA, incarnati dall’incredibilmente simbolico casting di Evans.

La libertà del film passa soprattutto attraverso le interpretazioni di Qualley e Plaza, che incendiano lo schermo con una chimica vibrante, in scene che mescolano eros, ironia e genuina leggerezza. La loro energia conferisce al racconto una spinta vitale, capace di rendere credibile un universo volutamente disordinato, dove anche la malinconia e l’instabilità affettiva di Honey emergono tra risate e situazioni paradossali.
Se il cinema dei Coen è spesso un equilibrio tra follia lucida e controllo stilistico, l’opera solitaria di Ethan mostra un volto più libero, sperimentale: un cinema in cui vita privata e finzione si intrecciano, dove la sessualità e le relazioni queer non sono ornamentali, ma cuore pulsante della narrazione. E in questo caos californiano, tra investigazioni improbabili e satira politica, Honey Don’t! riesce a fare ciò che poche commedie contemporanee osano: mostrare l’assurdità di un mondo che ci somiglia più di quanto vorremmo ammettere.


