I fratelli D’Innocenzo e il noir esistenziale di Dostoevskij

Quando si osservano le opere visive dei fratelli D’Innocenzo, non si può fare a meno di notare un tratto distintivo che trascende i singoli lavori: una fascinazione ossessiva per la periferia romana. Non una periferia da cartolina o di sociologia spicciola. No, quella dei D’Innocenzo è un regno crepuscolare, un microcosmo di degrado urbano e squallore che si insinua in ogni piega dell’esistenza, un personaggio a sé stante, crudele e magnetico, che marchia a fuoco chiunque lo abiti. 

Ed eccoci, dunque, a Dostoevskij, una miniserie che porta questo universo nel territorio della serialità, senza perdere un grammo della sua densità cinematografica. Disponibile dal 27 novembre su Sky e Now, l’opera approda sul piccolo schermo dopo aver percorso un iter atipico: prima l’anteprima al Festival internazionale del cinema di Berlino, poi un passaggio in sala diviso in due parti. Un percorso che rivendica una duplice identità, al confine tra cinema e televisione, e che riafferma l’ambizione artistica dei D’Innocenzo. 

Ma chi è il Dostoevskij evocato dal titolo? Non lo scrittore russo, bensì un serial killer enigmatico, battezzato così per via delle lunghe e tormentate lettere che abbandona accanto ai corpi delle sue vittime. Nella sua scia di delitti si muove Enzo Vitello, un poliziotto distrutto da un passato che grava su di lui come un macigno e da un presente che lo schiaccia ancora di più. Filippo Timi incarna Enzo con un’intensità feroce, restituendo le sue pulsioni autodistruttive, la sua rabbia e quella dolente umanità che emerge a tratti, soprattutto nel rapporto con la figlia Ambra. Accanto a lui, Gabriel Montesi dà vita a Fabio Buonocore, un collega ambizioso e apparentemente più equilibrato, che rappresenta il contraltare perfetto al caos di Enzo.

L’impronta dei grandi noir contemporanei è innegabile. True detective, con il suo viaggio esistenzialista nei paesaggi desolati della Louisiana, è il riferimento più immediato. Come Rust Cohle (il tormentato detective di Matthew McConaughey), anche Enzo vaga in un territorio plumbeo fatto di ombre interiori e di un paesaggio che riflette il marciume morale dei suoi abitanti. Tuttavia, i D’Innocenzo non si limitano a evocare quel modello: lo reinventano, lo distorcono, spingendolo in territori ancora più cupi. Se la Louisiana di True detective è un inferno umido e primordiale, la periferia laziale di Dostoevskij è un deserto esistenziale, arido e senza riscatto.

Col passare degli episodi, la caccia al serial killer diventa quasi un pretesto. La vera indagine è un’esplorazione delle radici del male: non un’entità astratta, ma una malattia endemica che germina nel terreno sterile di una società in rovina. Qui, come in Favolacce o America latina, i D’Innocenzo mettono in scena un’umanità che ha smarrito ogni bussola morale. I loro personaggi sono frantumi, schegge impazzite che oscillano tra l’eroismo e la ferocia. 

Quello dei D’Innocenzo è un cinema che non cerca compromessi né vie facili. Dostoevskij segue questa tradizione, con una fotografia che sembra spremere la luce fino all’ultimo bagliore, restituendo un mondo fatto di ombre e di ambienti che trasudano putrefazione. Non ci sono soluzioni narrative semplici né concessioni allo spettatore: la serie è un’esperienza ruvida, che respinge quanto attrae. È un’opera che si prende i suoi tempi, che si nutre di digressioni e silenzi, un urlo soffocato che trova la sua bellezza proprio nel rifiuto di essere addomesticato.

I D’Innocenzo raccontano una civiltà morente e lo fanno con un lirismo che sfiora il sublime. Ogni scena è una pugnalata, ogni dialogo un sussurro carico di dolore. Ma tra le macerie emergono momenti di inaudita bellezza, quasi a ricordarci che anche nel più profondo degli abissi può esistere una scintilla di luce. Come tutta la produzione dei fratelli D’Innocenzo, anche Dostoevskij è un’opera divisiva. Non è fatta per chi cerca intrattenimento facile, né per chi desidera risposte nette. È un racconto che ti sfida, che ti costringe a confrontarti con il tuo stesso disagio, con le crepe della società che hai attorno. I D’Innocenzo non temono di sporcarsi le mani e questo li pone in un’altra categoria, quella dei veri artisti, capaci di trasformare il degrado in arte e il dolore in poesia.

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