Alle Scuderie del Quirinale, il tempo sembra piegarsi. Le luci calde che filtrano sulle vetrine, i profili d’oro e le ombre allungate sulle pareti non evocano solo l’antico Egitto, ma la vertigine di una civiltà che aveva fatto dell’eternità un progetto politico. La mostra “Tesori dei Faraoni” (24 ottobre 2025 – 3 maggio 2026) riporta a Roma oltre 130 capolavori provenienti dal Museo Egizio del Cairo e dal Museo di Luxor, in un allestimento che alterna sacralità e spettacolo, silenzio e stupore.
Più che un percorso archeologico, è un viaggio dentro la costruzione dell’immortalità. L’oro, le iscrizioni, i sarcofagi e gli amuleti diventano simboli di un potere che non voleva morire: ogni oggetto è un messaggio cifrato, una promessa che i faraoni hanno lasciato al mondo. Ma dietro la bellezza degli ori e la precisione dei geroglifici si nasconde una domanda più ampia, che oggi suona quasi contemporanea: quanto del potere umano si fonda sull’illusione della permanenza?

La curatela — equilibrata e narrativa, forse fin troppo rispettosa del canone “classico” delle grandi mostre storiche — accompagna il visitatore in un ritmo che alterna contemplazione e retorica visiva. Le teche illuminate restituiscono lo splendore di un’epoca, ma lasciano anche una certa distanza: si osserva molto, si sente poco. È qui che emerge la prima crepa. La mostra non osa mai spingersi oltre la reverenza, preferendo la sicurezza della meraviglia all’inquietudine del dubbio. Manca quella tensione interpretativa che avrebbe potuto tradurre l’antico Egitto in una lente sul presente: sull’ossessione per l’immagine, sulla costruzione della memoria come forma di potere, sulla spettacolarizzazione del sacro.
Eppure, alcuni oggetti riescono a rompere la barriera del tempo. Il sarcofago di Psusenne I, con i suoi riflessi metallici, è più vivo di qualunque installazione contemporanea; le statuette funerarie, allineate come eserciti di anime, raccontano la quotidianità di un popolo che non separava mai il visibile dall’invisibile. È in quei dettagli che la mostra trova il suo ritmo emotivo, quello che non si misura in cronologia ma in percezione.

Il rischio, come sempre quando si parla di Egitto, è la deriva da “museo-merce”: il fascino dell’oro, l’effetto “wow”, la seduzione del mistero. Ma le Scuderie del Quirinale evitano in parte la trappola grazie a un impianto scenografico essenziale, che lascia parlare gli oggetti più che le didascalie. Non ci sono proiezioni immersive né suoni di sottofondo che simulano il deserto: solo la luce e il silenzio. E in quella sospensione si sente forse la cosa più vera — la distanza che separa la nostra epoca da quella dei faraoni, ma anche la stessa paura della fine.
Dal punto di vista simbolico, l’esposizione assume una dimensione diplomatica: è il risultato di una collaborazione tra Italia ed Egitto che trascende il prestito museale. È un gesto di fiducia culturale, un tentativo di riavvicinamento tra due Paesi che condividono, nel fondo, un’eredità comune: quella del Mediterraneo come culla di civiltà, ma anche di contraddizioni.

Visitandola, si ha la sensazione di entrare in un teatro dove tutto è già stato scritto. Eppure, a un certo punto, la mostra smette di parlare di faraoni e comincia a parlare di noi. Di come costruiamo la nostra identità attraverso gli oggetti, di come cerchiamo salvezza nell’immagine, di quanto la memoria sia ancora un potere politico. L’Egitto diventa uno specchio, non un mito.
In fondo, “Tesori dei Faraoni” non è solo una mostra sulla morte, ma sulla resistenza della forma. Sul desiderio — antico e moderno — di lasciare un segno che sopravviva all’oblio. Forse è questo che la rende necessaria: perché, guardando i volti scolpiti nella pietra, capiamo che la vera eternità non è nell’oro, ma nello sguardo di chi continua a guardare.


