I Verdena rimangono in due. Breve storia iconografica tra psichedelia e quel riferimento al “frottage” di Max Ernst

Dopo quasi trent’anni di carriera condivisa, i Verdena cambiano pelle. Ieri, infatti, la rock band bergamasca ha annunciato la separazione da Roberta Sammarelli, storica bassista e presenza iconica del trio, spiegando di «sentire il bisogno di andare avanti in un’altra direzione». È la fine di un’era per una delle band più rappresentative del rock italiano contemporaneo, ma non la fine del progetto: i fratelli Alberto (voce e chitarra) e Luca Ferrari (batteria) hanno confermato che i Verdena continueranno come duo, pronti a inaugurare un nuovo capitolo. In un post social asciutto e ironico – “Siamo tutti sensibili al ridicolo e alla vergogna” – hanno salutato Roberta e i fan, rimanendo fedeli a quella comunicazione spiazzante e ambigua che li accompagna sin dagli esordi.

Il nuovo assetto inevitabilmente ridefinirà la loro identità sonora e visiva. I fratelli Ferrari stanno già lavorando a un nuovo album che segnerà il passaggio (forse) da un’energia collettiva a una dimensione più intima e diretta. In passato, i Verdena hanno sempre gestito in autonomia ogni aspetto della propria immagine, dal concept grafico ai videoclip, e anche questa volta non sembra che la direzione cambierà.

Fin dagli esordi, i Verdena hanno costruito un linguaggio visivo inscindibile dalla loro musica, evolvendolo di album in album. Il debutto del 1999, con il logo bianco su sfondo nero firmato Paolo De Francesco, definiva un’estetica minimale e misteriosa; con Solo un grande sasso (2001) arrivava una svolta materica e terrena, mentre Il suicidio dei samurai (2004), illustrato da Luca Ferrari (Fenuk), introduceva un segno naïf e psichedelico. Requiem (2007) rappresenta un salto concettuale con la foto di un dipinto di Paolo Facchinetti rielaborato da De Francesco, immagine “classica e decadente” che richiama Red dei King Crimson. Nel 2011 Wow! esplode in un kaleidoscopio cromatico firmato ancora da De Francesco, simbolo della loro psichedelia sonora. Con Endkadenz (2015) la band torna al collage onirico, fino a Volevo Magia (2022), dove Fenuk e De Francesco intrecciano disegni e fotografie in un caos armonico che riflette la poetica imperfetta e visionaria dei Verdena. I Verdena non hanno mai delegato la loro immagine: l’hanno abitata come un’estensione del suono, trattando il visivo con lo stesso spirito sperimentale della musica. Il nuovo corso, con una formazione ridotta, potrà dunque tradursi in una ricerca più concentrata, forse più astratta, ma di certo fedele a quella tensione continua tra artigianalità e visione.

Allo stesso modo, i testi di Alberto Ferrari hanno sempre rifuggito ogni linearità narrativa. Più che racconti, sono collage sonori, costruiti per giustapposizione di immagini e sensazioni. Lo stesso autore ha raccontato che le parole arrivano dopo le melodie, scelte in base alla musicalità, non al senso. Nascono “per fonetica”, per vibrazione, per come suonano. Ne risultano frasi che si aprono a molteplici interpretazioni, oscillando tra poesia automatica e intuizione onirica. La stampa li ha definiti testi “dadaisti” o “allucinazioni verbali”, un linguaggio che si muove per associazioni imprevedibili più che per logica narrativa. In un’intervista, Ferrari spiegava che il senso spesso arriva solo a posteriori, quando la canzone esiste già e si impone da sé.

Questo metodo creativo richiama da vicino le pratiche del Surrealismo novecentesco,in particolare il frottage di Max Ernst: quella pratica che consisteva nel far emergere immagini nascoste strofinando la matita su una superficie ruvida, lasciando che la casualità rivelasse forme inattese. Allo stesso modo, i testi dei Verdena sembrano nascere da un attrito: parole strofinano contro altre parole finché non affiora una figura, un’immagine, un lampo poetico. Come i surrealisti cercavano l’inconscio attraverso il caso e l’automatismo, così i Verdena intrecciano parole per evocare stati mentali più che per descrivere situazioni. Le immagini emergono come in sogno, per frammenti e accostamenti. “Faccio collidere le parole fino a quando non suonano bene”, ha dichiarato una volta Alberto, e in questa collisione risiede la loro forza evocativa. I testi funzionano come quadri astratti fatti di linguaggio, in cui il significato è un riverbero, non un centro. È per questo che le canzoni dei Verdena – da Muori Delay a Loniterp, da Razzi Arpia Inferno e Fiamme a Scegli me (un mondo che tu non vuoi) – restano sospese, aperte, irriducibili a una sola interpretazione.

Accanto al linguaggio visionario, i Verdena hanno sempre amato disseminare riferimenti letterari e culturali, che arricchiscono il tessuto delle loro liriche. “Il caos strisciante” cita apertamente Lovecraft, con la sua ossessione per l’insondabile; “Sotto prescrizione del Dott. Huxley” omaggia Aldous Huxley e la sua idea di percezione alterata; “Cara Prudenza” rimanda ai Beatles, “Angie” ai Rolling Stones. Altri testi si nutrono di cinema e filosofia, tra echi di Arancia Meccanica, visioni psichedeliche e un’ironia che mescola alto e basso, sacro e profano. La cultura pop e quella colta convivono nello stesso spazio, come nelle loro copertine o nei video, dove citazioni e deformazioni convivono senza gerarchie. Questo sincretismo è parte del DNA dei Verdena: la capacità di prendere elementi lontani e farli convivere in un’unica estetica coerente, caotica ma lucidissima.

Tutto nei Verdena è ibrido e metamorfico. Non solo la musica, che ha sempre oscillato tra grunge, psichedelia e lirismo, ma anche il loro modo di stare nel mondo. Sono una band che non si lascia spiegare, che rifugge le categorie e preferisce la trasformazione al riconoscimento. Per questo, la decisione di Roberta Sammarelli di lasciare il gruppo non appare come una frattura, ma come l’ennesima mutazione naturale di un organismo in continua evoluzione. D’altronde, la storia dei Verdena è costellata di pause, silenzi, cambi di rotta improvvisi. Ogni ritorno è sempre stato diverso dal precedente, e ogni disco un universo autonomo.

Con l’annuncio della nuova formazione, si apre la fase post-Roberta, ma anche un possibile rilancio creativo. In un panorama musicale dominato dalla velocità e dall’omologazione, i Verdena restano un unicum: un gruppo che ha scelto di restare fedele alla propria lentezza, alla cura artigianale del suono, al mistero come forma di comunicazione. La loro metamorfosi attuale sembra proseguire questo percorso, non tradirlo.

La sfida visiva e concettuale sarà quella di tradurre in immagini un’identità che cambia: un progetto che, pur perdendo una parte fondamentale, può trovare nuova forza nella sottrazione. Se il trio rappresentava la triade perfetta di corpo, anima e voce, il duo potrebbe incarnare un dialogo più intimo, appunto fraterno, viscerale, capace di rinnovare il mito dei Verdena senza snaturarlo.

Al di là delle speculazioni, una cosa è certa: pochi gruppi italiani hanno saputo unire con tanta coerenza musica, linguaggio e immagine, creando un immaginario riconoscibile eppure inafferrabile. I Verdena hanno costruito un modo di fare rock che è anche una forma d’arte totale, in cui il suono si fonde con la visione e il non-senso diventa poesia. Oggi che il trio si riduce a due, resta intatto quel nucleo di libertà e sperimentazione che li ha resi un punto di riferimento.

Forse è questo, più di tutto, il senso della loro metamorfosi: non un addio, ma un ritorno all’essenza. Un passaggio da una magia collettiva a una magia concentrata, dove Alberto e Luca Ferrari possono continuare a reinventarsi, rimanendo fedeli a un principio che li ha sempre guidati – la ricerca ostinata di un linguaggio personale, indipendente, imprevedibile.

Perché, come insegna la loro stessa storia, i Verdena non finiscono: cambiano forma.

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