Osservando il panorama dell’arte digitale italiana, ci si rende immediatamente conto di come l’estetica classica e rinascimentale sia penetrata profondamente nell’immaginario degli artisti contemporanei. Sotto forme e stili diversi, autori come Bonapace, Crespi, Svccy, THEM, Beatrice Vigoni e altri hanno rielaborato i canoni visivi del passato, fondendoli con il linguaggio tecnologico del presente. Non si tratta solo di omaggi formali: questa tendenza nasconde, spesso, un’urgenza più profonda. Una domanda implicita guida queste opere: cosa significa oggi bellezza? E cosa rimane dell’armonia quando il corpo diventa dato e il volto una sintesi generativa?
Nel mondo greco, la bellezza non era un semplice abbellimento esteriore: rifletteva una proporzione dell’anima, un equilibrio tra le parti che rispecchiava l’ordine cosmico. La kalokagathia, unione di bello e buono, era il fulcro di un’educazione estetica e morale. Ma cosa resta di questo principio quando la bellezza viene generata da un prompt? Quale senso assume oggi l’estetica della perfezione algoritmica, modellata da reti neurali allenate su un archivio di volti giovani, simmetrici e levigati?

I canoni di bellezza dell’era digitale, se abbandonati agli output meccanici delle AI text-to-image, rischiano di rimanere imprigionati in un ideale freddo e astratto, privo di anima, storia e imperfezione. L’estetica algoritmica tende a cancellare la realtà: è una Venere senza nascita, un simulacro che ci illude di poter esistere senza dolore e senza tempo. Non è solo una questione tecnica, ma anche politica e simbolica. Perché ogni estetica è anche una forma di potere: plasma ciò che è desiderabile, ciò che vale la pena replicare, ciò che può essere mostrato.

Questa nuova ideologia estetica, apparentemente neutra, cerca di sostituire alla complessità dell’essere umano una perfezione astratta, disumana, dove ogni difetto viene rimosso come un errore del codice. Ma quando la bellezza smette di essere simbolo, perde di senso: diventa superficie e può rivoltarsi contro di noi come uno specchio che ci riflette solo quando siamo giovani ed efficienti. È allora che la vecchiaia, la malattia, la morte tornano a essere tabù: non più accettati, ma occultati. Per fortuna l’arte continua ad essere un veicolo di ribellione alla standardizzazione dell’estetica e del pensiero.
Alcuni artisti, invece di cedere a questo nuovo culto della perfezione, lo interrogano. Le Madonne pixelate di Beatrice Vigoni, la rilettura di Amore e Psiche di Andrea Crespi, le opere digitali di Bonapace non sono semplici citazioni estetiche del passato. Sono forme di resistenza poetica. Attraverso la bellezza, interrogano l’artificiale. Attraverso il classico, interrogano il contemporaneo. In queste opere la tecnologia non è al servizio dell’omologazione, ma del dubbio e del desiderio di senso. Forse il compito dell’arte oggi è proprio questo: sabotare i codici della bellezza programmata, restituendo profondità all’apparenza. Ricordandoci che la bellezza, per essere umana, deve essere anche fragile, viva, imperfetta.



