Testa e cuore, razionalità ed emozione: dicotomie fondamentali per la riuscita di qualunque opera che voglia rappresentare non solo una funzione ma anche un messaggio. Nel lavoro di Franco Perrotti, designer e artista dalla incontenibile poliedricità, questi due aspetti si compenetrano, dando vita a una ricerca singolare e ibrida che si muove tra diversi linguaggi espressivi. Un percorso a cavallo tra il design e l’arte, dove il confine tra questi due mondi non è un muro ma un ponte. Non a caso il titolo della mostra di Perrotti alla Fabbrica del Vapore di Milano, When I was a Designer, allude a un passaggio dalla figura del designer a quella di artista, ma lo fa con ironia, non come un taglio drastico. Non si smette di essere progettisti, semplicemente si espande il progetto.

La traiettoria di Perrotti — dal rigore industriale di Milano alla libertà artigianale dell’Abruzzo — racconta la possibilità di un linguaggio mescolato. Laddove il mercato impone la replica, l’artista restituisce l’unicità del gesto, ma non si tratta di due ruoli contrapposti: arte e design convivono come due modalità di interpretare il reale. Perrotti non rappresenta la crisi del designer, ma una sua evoluzione naturale. Quando il mercato smette di essere l’interlocutore, il design torna a confrontarsi con la propria radice più antica: quella del gesto artigianale, dell’ispirazione genuina.

Parliamo infatti di un uomo che, dopo decenni di collaborazione con aziende come Tecno, Poltrona Frau e Moroso, ha scelto di lavorare in autonomia. La sua ricerca recente, raccolta nella mostra milanese insieme ai pezzi storici, nasce da questa libertà: una condizione che non appartiene né all’industria né al mercato. Liberato dal brief, il designer non deve più risolvere un problema, può finalmente generarlo («scegliere da solo il proprio guaio», come afferma lui stesso). Questa inversione — dal funzionale al simbolico — è ciò che distingue l’artista dal progettista. Non si tratta di smettere di progettare, ma di farlo senza una destinazione d’uso, come atto espressivo.
Così nel percorso espositivo troviamo riferimenti al mondo del cinema con una poltrona ispirata alla Tabaccaia di Fellini in Amarcord, a quello della televisione con una sedia che omaggia le curve di Brigitte Nielsen, ma anche a quello dell’arte classica con il tavolo dedicato a Borromini e alla sua linea barocca. Un’esplosione di creatività che utilizza l’arredamento come canale per esprimersi. Dopotutto fu già negli anni Trenta Bruno Munari, peraltro insegnante di Perrotti, a leggere in chiave poetica il design, trasportandolo fuori dalla sua mera funzione. O Ettore Sottsass che lavorava con il disegno, la fotografia, la poesia e l’architettura tutte insieme. When I was a Designer mette in luce proprio un percorso che ripercorre questi passi ma dà vita a una storia del tutto personale, sia professionale che di vita.

In un momento in cui il design tende a coincidere con l’immagine e la produzione seriale, questa mostra invita a riscoprire il valore del processo, dell’errore, della libertà. C’è un tavolo in esposizione che recita da un lato «….et alors monsieur le Corbusier? Ca va bien?» E dall’altro «….Je m’en fous!»: la provocazione di Perrotti è quella di creare un tavolo dove il piano e le gambe sono un tutt’uno, un blocco unico, al contrario di quanto affermava le Corbusier («un tavolo è formato da un piano e quattro gambe«). E allora «Le sta bene signor le Corbusier? Io me ne frego!» Questo è ciò che ci vuole raccontare When I was a Designer, ossia che il design non si ferma agli oggetti, ma deve mettere in discussione, porre domande e diventare dialogo personale con il mondo attraverso la propria testa e il proprio cuore.


