È la serie del momento su Netflix, un noir nostrano che cavalca l’ormai stancante onda dei serial killer, ma senza aggiungere nulla di nuovo. Il Mostro di Firenze, firmato da Stefano Sollima, tenta di elevarsi sopra la cronaca nera e finisce per scivolare in un esercizio di stile asettico, dove l’ambizione documentaria si trasforma in manierismo e l’emozione muore soffocata dal rigore. È una serie impeccabile nella forma, ma svuotata di sostanza: tutto è corretto, tutto è coerente, tutto è spento.
Sollima gioca la carta del realismo più cupo: attori non noti, dialoghi tratti quasi alla lettera dai verbali, una fotografia livida che sembra ispirarsi alla necrosi più che alla luce. Eppure, nel suo bisogno di “verità”, Il Mostro finisce per diventare il contrario di ciò che promette: un simulacro di autenticità. Gli interpreti recitano come automi, privi di respiro, schiacciati da una dizione che non suona mai naturale. Ogni parola è un macigno, ogni pausa una posa. Il risultato è un teatro processuale filmato, più vicino alla ricostruzione di un verbale che a un racconto capace di vivere. I personaggi sono pedine bidimensionali senza una vera caratterizzazione: subiscono l’ambiente e la violenza che li circonda con un immobilismo che è quasi patetico.

La freddezza non è una cifra stilistica, ma un difetto strutturale. Sollima costruisce il dramma come un archivio di prove, non come una storia. I silenzi diventano manierismo, i piani fissi un gesto estetico privo di tensione. Il suo sguardo, apparentemente oggettivo, si traduce in un controllo ossessivo che sterilizza tutto: la paura, il dolore, perfino la colpa.
Ma il vero problema non è la lentezza, quanto la mancanza di vita. La serie procede per accumulo di informazioni, come se lo spettatore dovesse partecipare a un interrogatorio anziché a un racconto. La verità, qui, non si cerca: si ripete. E quando il pathos manca, anche la precisione più maniacale diventa inutile. Il rigore di Sollima non è una scelta etica, ma un alibi estetico: un modo elegante per non sporcarsi con la complessità dei sentimenti.
Sul piano tematico, Il Mostro avrebbe tutto: l’Italia patriarcale, la violenza contro le donne, l’ipocrisia della provincia, la complicità sociale. Ma nulla di questo prende davvero forma: le donne sono vittime bidimensionali, gli uomini caricature di brutalità rurale trattati come stereotipi da libri di storia, rifuggendo ogni benché minima carica antropologica. I conflitti restano sospesi, come se l’autore temesse di interpretare troppo. La Toscana e la Sardegna diventano sfondi museali, scenografie da cartolina noir: paesaggi che raccontano il nulla.

Quella che doveva essere una riflessione sull’Italia più oscura si riduce così a un’esercitazione di regia pulita e claustrofobica. L’assenza di pathos non è distacco brechtiano, ma vuoto. Non c’è un momento in cui la serie riesca a scuotere davvero, a disturbare, a far male. Tutto è studiato, levigato, congelato. Il male non è mai vivo, solo riprodotto.
Persino la struttura “Rashomon”, un episodio per ogni sospettato, finisce per diventare ripetitiva e prevedibile. Ogni capitolo è un esercizio di variazione sullo stesso tema, come un dossier che cambia copertina ma non il contenuto. Nessuna prospettiva aggiunge davvero complessità, nessuna svolta modifica lo sguardo. L’indagine non avanza, gira su sé stessa, perdendo tensione a ogni giro.
Il Mostro avrebbe potuto essere il ritratto di un Paese malato, ma resta un’anatomia senz’anima. È un prodotto levigato, freddo, impaurito dalle proprie possibilità. Sollima, regista di talento quando gioca con il caos e la violenza (Suburra, Sicario 2), qui sembra svuotato, prigioniero di una forma che non vibra. Il suo controllo maniacale annulla la vita. Il risultato è un prodotto perfettamente inutile: serio, ben fatto, eppure privo di qualunque scintilla.
Si può raccontare l’orrore senza spettacolarizzarlo, ma non si può raccontarlo senza sentire nulla. Il Mostro è l’ennesima prova che il realismo, quando diventa estetica, smette di dire la verità.


