Nel mondo dell’arte, il prezzo non è mai solo un numero. È una narrazione. Parla della reputazione degli artisti, del prestigio dei dealer, della qualità percepita delle opere. È il risultato – e al tempo stesso il motore – di un complesso intreccio tra cultura ed economia.
Lo spiega bene Olav Velthuis, sociologo all’Università di Amsterdam, nel suo libro Talking Prices. La sua analisi rovescia l’idea comune del mercato: non più un luogo neutro di scambio, ma un ambiente dove i significati si costruiscono e si negoziano attraverso storie.
Secondo la studiosa Kate Brown, le gallerie e le case d’asta non si limitano a diffondere dati: li usano strategicamente per plasmare il valore estetico e rafforzare la loro posizione nel mercato.
Non si tratta di una manipolazione arbitraria, ma del riconoscimento che il valore è, in larga parte, una costruzione narrativa. I numeri, come spiega Brown, non sono neutri: vengono selezionati, confezionati e comunicati in modo da costruire una narrazione coerente e autorevole. Le stime sui valori futuri si basano su vere e proprie “finzioni ben congegnate” in cui biografie, genealogie artistiche e selezioni di prezzi storici si intrecciano per creare aspettative e desideri.
Il prezzo come linguaggio
Velthuis lo chiarisce: stabilire un prezzo è un gesto culturale. È un modo per trasmettere significati, per segnalare prestigio. Un prezzo alto comunica non solo la qualità dell’opera, ma anche chi è stato il primo a credere in quell’artista – un’informazione preziosa per i collezionisti in cerca di distinzione.
Il mercato dell’arte, con le sue regole spesso poco chiare o difficili da interpretare, vive di una tensione profonda: da un lato, la necessità di legittimarsi come spazio culturale autonomo; dall’altro, l’inevitabile coinvolgimento con la logica commerciale. Ma questa separazione, spesso evocata, è più ideologica che reale. Le narrazioni non descrivono semplicemente il mercato: lo costruiscono.
Quando un gallerista proclama che un artista è “il più rilevante della sua generazione”, o quando una casa d’asta accosta un’opera a maestri del passato, non sta solo comunicando: sta generando valore.
Arte e moda: due sistemi, una logica condivisa
Anche la moda funziona così. Una borsa Birkin non vale decine di migliaia di euro per la pelle, ma per la storia che racconta: l’artigianalità, la scarsità, l’aura di esclusività. Le sfilate di haute couture – spesso in perdita – servono a legittimare il marchio, più che a generare profitti diretti.
Sia l’arte che la moda costruiscono valore attraverso meccanismi simili: scarsità (opere uniche, edizioni limitate), genealogie (i maestri, gli archivi), e identità (attraverso il possesso).
Ma le differenze sono cruciali. Nell’arte, l’unicità resta fondamentale. La moda, invece, oscilla tra unicità e serialità (haute couture vs prêt-à-porter). Il brand nella moda è un attore stabile e riconoscibile; nell’arte, la reputazione dell’artista è fluida e più vulnerabile. La moda ha consolidato imperi industriali come LVMH o Kering; l’arte rimane un ecosistema frammentato.
E mentre la moda è ormai completamente integrata nei meccanismi della finanza globale, il mercato dell’arte – come ricordano Velthuis ed Erica Coslor – conserva un rapporto ambiguo con la finanziarizzazione: tra resistenze interne e difficoltà strutturali, come la scarsa liquidità.

Inventare un mercato
Nei paesi emergenti – come Brasile, Russia e India – la nascita dei mercati d’arte non è stata spontanea, ma frutto di strategie precise, spesso sostenute da istituzioni pubbliche.
Il Brasile, in particolare, offre un caso emblematico. Dopo la crisi del 2008, il progetto Latitude – nato dalla collaborazione tra gallerie e governo – ha costruito una narrazione credibile e attrattiva per il mercato internazionale: partecipazione a fiere, pubblicazione di report, rete di relazioni. I risultati si sono visti: nel 2023, mentre il mercato globale scendeva del 4%, quello brasiliano cresceva del 21%.
Come osserva la ricercatrice Dayana Zdebsky de Cordova, la domanda non è se quei numeri fossero “veri”, ma come sono stati percepiti. E la percezione, nel mercato dell’arte, può cambiare la realtà. Un gallerista lo dice chiaramente: “Il mercato dell’arte non esiste in sé. Esiste ciò che le persone credono che esista.”
La verità della finzione
Oggi viviamo un cambio di paradigma: dal valore al prezzo, dal lavoro al debito. La speculazione ha invaso l’immaginario, e anche l’arte non ne è immune.
Riconoscere che il prezzo è una narrazione non vuol dire denunciare un inganno. Significa comprendere come funzionano i mercati culturali. Le istituzioni non si limitano a registrare il valore: lo curano, lo orientano, a volte lo creano. Questo genera asimmetrie, ma anche possibilità.
Sapere tutto ciò è liberatorio. Quando compriamo un’opera o un capo di lusso, non stiamo solo acquisendo un oggetto: entriamo in una storia. Una storia che ci precede, che continuiamo a raccontare, e che proprio grazie al nostro racconto diventa reale.
Il mercato dell’arte non nasconde questa dinamica. Anzi, la mostra. Ed è forse questa trasparenza paradossale – il fatto che tutto sia dichiaratamente una costruzione – a renderlo così affascinante.
Bilbiografia
- Brown, Kate (2022). Art markets, epistemic authority, and the institutional curation of knowledge. Cultural Sociology, Taylor & Francis.
- Velthuis, Olav (2003). Symbolic Meanings of Prices: Constructing the Value of Contemporary Art in Amsterdam and New York Galleries. Theory and Society, vol. 32, pp. 181–215.
- Velthuis, Olav (2005). Talking Prices: Symbolic Meanings of Prices on the Market for Contemporary Art. Princeton University Press.
- Velthuis, Olav & Coslor, Erica (2012). The Financialization of Art. In Knorr Cetina, K. & Preda, A. (a cura di), The Oxford Handbook of the Sociology of Finance. Oxford University Press.
- Zdebsky de Cordova, Dayana (2014). Brazil’s Booming Art Market: Calculations, Images, and the Promotion of a Market of Contemporary Art. In Sansi, R. (a cura di), An Anthropology of Contemporary Art: Practices, Markets, and Collectors.



