La Galleria Mucciaccia di Roma ha aperto le porte all’arte di Jan Fabre che, fino a marzo, sarà per la prima volta in Italia, con una mostra che raccoglie i due più recenti capitoli della sua produzione artistica: Songs of the Canaries (A Tribute to Emiel Fabre and Robert Stroud) e Songs of the Gypsies (A Tribute to Django Reinhardt and Django Gennaro Fabre), a cura di Dimitri Ozerkov.
L’autore, nato ad Anversa nel 1958, è noto nel mondo artistico contemporaneo per il suo gusto per l’innovazione e la sperimentazione e rinomato per i contributi che ha dato all’arte visiva, al teatro e alla letteratura, nonché per essere il primo artista vivente i cui lavori sono stati esposti in istituzioni prestigiose come il Museo del Louvre di Parigi (2008) e il Museo Hermitage di San Pietroburgo (2017). Pluripremiato, Fabre arriva nella capitale italiana con una forza dirompente, visibile in ogni opera realizzata, e porta con sé tre figure lontane e apparentemente sconnesse: suo figlio, suo fratello e un assassino.

La mostra si divide in due sezioni. Il primo capitolo Songs of the Canaries è un tributo a Emiel Fabre – fratello dell’artista, scomparso a causa di una malattia – e Robert Stroud, detto “Birdman of Alcatraz”, prigioniero, prima condannato a morte, poi all’ergastolo, che negli anni di prigionia si dedicò allo studio dei canarini, diventando un famoso ornitologo. La sezione è un inno alla fugacità dell’esistenza, al continuo anelo, fin troppo umano, di raggiungere qualcosa di diverso e spesso lontano, di cui a stento si riescono a intravedere i confini. Il desiderio e la brama che l’umanità prova verso la conoscenza e verso il cielo trova rappresentazione nelle installazioni dell’artista, composte da opere scolpite in marmo di Carrara e disegni a matite colorate su Vantablack (materiale composto da nanotubi di carbonio e considerato uno dei più neri al mondo).
Intervistato, sulle ragioni che l’hanno portato a scegliere di accostare la memoria di suo fratello alla figura di un noto criminale, l’artista belga ha spiegato: «Mi sono lasciato ispirare dal celebre ornitologo Robert Stroud. Quando fu rilasciato, alla domanda dei giornalisti su cosa avesse intenzione di fare per il resto della sua vita, rispose: “Voglio misurare le nuvole”. Avevo visto anche il film L’uomo di Alcatraz con Bart Lancaster. Stroud era diventato specialista nei canarini e mio fratello Emiel morì all’età di tre anni a causa di una malattia che nelle Fiandre è chiamata “Il canarino che canta troppo forte nell’orecchio”, una sorta di parotite. Il canarino è stato più volte usato come una sorta di sentinella per i lavoratori delle miniere. In Belgio ve ne sono moltissime. I minatori portavano con sé questi uccelli e nel momento in cui gli animali svenivano capivano che non c’era abbastanza ossigeno e ritornavano in superficie. Quindi attraverso l’immagine del canarino voglio alludere a colui che vede prima, che sente qualcosa prima degli altri».

All’interno di questa sezione, proprio al centro, si trova la scultura monumentale The Man Who Measures His Own Planet (2024). È la figura di un uomo su una scala, la testa aperta, a rivelare parte di ciò che generalmente nascondiamo, e che gli altri non riescono a vedere. La figura è in bilico, con le braccia verso l’alto, quasi a voler raggiungere, e forse misurare, il cielo. Tutto è incomprensibile: la mente dell’uomo, i suoi desideri, il cielo e il mondo davanti a sé. Allo stesso modo tutto sembra somigliare all’uomo che ha ideato l’opera, Fabre stesso, o a suo fratello. Le altre sculture della sezione immortalano canarini appollaiati in cima a cervelli umani, come si stessero interrogando sul funzionamento della mente, dando vita a opere dai titoli evocativi – Thinking Outside the Cage e Sharing Secrets About the Neurons – in cui i dettagli anatomici del corpo umano si fondono con le piume, la leggerezza e il canto dei volatili.
Il secondo capitolo, Songs of the Gypsies è un tributo a Django Reinhardt e Django Gennaro Fabre, suo figlio. È proprio pensando a Django Reinhardt, virtuoso chitarrista gypsy – ritenuto uno degli esponenti più significativi del jazz europeo, straordinario per talento, nonostante avesse subito le conseguenze di un incidente alla mano sinistra – che l’artista ha scelto di chiamare il suo primogenito Django Gennaro. A entrambi è dedicata una sezione che combina il jazz e l’arte con la vita personale dell’artista, trovando massima realizzazione nelle tre grandi sculture di marmo di Carrara in cui l’autore raffigura un neonato, suo figlio all’età di 5 mesi e mezzo, alto tanto come il padre.

Ad alternarsi, delicate forme infantili, partiture di musica jazz, disegni dai colori vivaci, figure massicce incise nel marmo, in una serie di contrasti giocosi che combinano schizzi infantili e riflessioni sul ritmo della vita e sulla musica che si sceglie di dare alla propria esistenza, in un movimento lento che sembra oscillare tra piccolo e grande, timore e audacia, fragilità e forza.
Nell’esposizione, ogni cosa è canto: il cinguettio dei canarini, i pensieri della mente, il vento che sposta le nuvole in cielo, il rumore di una matita sulla carta, lo scorrere di un pennello sulla tela, il ticchettio dello scalpello sul marmo, il gesto di una mano che tocca le corde di una chitarra, poi la musica jazz, il verso di un animale, il pianto e la risata di un bambino. Ogni cosa in mostra è canto: sfumatura di una complessa e imperscrutabile umanità.