La desinenza estinta, il grande arazzo di Lucia Veronesi per una riconciliazione universale

Castrignano dei Greci è un borgo nel basso Salento, popolato da poco meno di quattromila abitanti, nella zona della Grecia salentina, un territorio in cui la tradizione, il culto e la storia si respirano ancora. Forse è per questo che, entrando nella sala del Palazzo Baronale de Gualtieriis, sede del Centro d’arte contemporanea KORA, destinata alla mostra “La desinenza estinta” di Lucia Veronesi, si perdono un po’ le parole, davanti a un arazzo che ha quasi le dimensioni di una piccola stanza, alto tre metri, lungo altri cinque, e che racchiude in sé la paura di scomparire, il rapporto dell’uomo con la natura, lo scorrere del tempo e l’inconsistenza della vita.

Gli elementi che si fondono nell’arazzo, estrema unione e perfetta occasione per rimettere insieme tutti i fili del progetto, sono tre e, da questo momento in poi, almeno davanti all’opera, sarà difficile distinguere dove finisca l’uno e dove, invece, sarebbe dovuto cominciare l’altro: la relazione tra l’estinzione delle lingue indigene dell’Amazzonia; la scomparsa degli usi farmaceutici di alcune piante, noti e tramandati, solo da certe popolazioni locali e la cancellazione, quasi forzata, di nomi e volti di donne, scienziate, botaniche, illustratrici ed esploratrici dal Settecento all’Ottocento, i cui sforzi non sono mai stati riconosciuti, escluse, emarginate, respinte poiché donne, offuscate, nascoste e costrette all’oblio.

“La desinenza estinta” è un progetto di ricerca che non ha radici, eppure si è esteso ovunque. È probabile che sia partito dall’Amazzonia, attraversando l’oceano e approdando su un altro, più antico, continente: l’Europa, dove ha trovato chi era predisposto a occuparsene. Oppure che sia nato al centro dell’Europa, in Svizzera, dove sono state studiate le teorie e si sono svolte le indagini più approfondite, o in Norvegia, dove l’arte e l’attivismo avevano preso già forma durante la seconda guerra mondiale, lontano dai nostri occhi. Ovunque si sia originata l’idea di Lucia Veronesi, è in Europa che, oggi, si manifesta in quattro forme differenti, ognuna con una propria declinazione, ma tutte unite in un unico e condiviso messaggio di allarme, una testimonianza, un grido strozzato che implora di essere ascoltato, prima che sia troppo tardi.

Le origini del progetto di Veronesi (Mantova, 1976) risalgono a quasi due anni fa, verso la fine del 2022, quando ha deciso di contattare l’associazione culturale Ramdom, di Paolo Mele e Claudio Zecchi, con sede in Puglia. Da lì, la strada è stata lunga, e si è conclusa – per iniziare, ancora una volta – con la proclamazione di “La desinenza estinta” come progetto vincitore della dodicesima edizione dell’Italian Council, programma che promuove l’arte contemporanea italiana nel mondo, con il supporto di partner italiani ed esteri: Ca’ Pesaro a Venezia, in Italia; il Nordenfjeldske Kunstindustrimuseum MiST di Trondheim, in Norvegia; l’Università di Zurigo, in Svizzera e la Goldsmiths University di Londra, in Inghilterra.

Il percorso dell’artista si è ramificato, nel corso del tempo, tra Londra, Trondheim e Zurigo. Dal Dipartimento di botanica sistematica ed evoluzionistica e da quello di biologia evoluzionistica e studi ambientali dell’Università di Zurigo è partito lo studio di un progetto che, già sulla carta, risultava tanto affascinante, quanto impegnativo: ricercare, e riuscire a rappresentare attraverso l’arte, il rapporto tra il pericolo di scomparsa del 30% delle lingue di alcune zone dell’Amazzonia entro la fine del XXI secolo, approfondito in una pubblicazione di Jordi Bascompte e Rodrigo Cámara Leret, e l’impossibilità di trasmettere, attraverso il linguaggio, le proprietà curative delle piante locali. Sono molti gli approfondimenti e gli studi che affrontano quanto sia rilevante la lingua nel rendere viva e concreta la realtà che ci circonda quotidianamente: una pianta diventa una pianta nel momento in cui le viene assegnato un nome, dunque un’identità, che le permette di acquisire spessore e di essere individuata, nel discorso, così come in natura. Lo stesso accade per le caratteristiche che a questa pianta possono essere attribuite, dal profumo, al colore, alla ruvidezza dello stelo, alla delicatezza di un petalo, fino alle proprietà curative.

A questo, si aggiunge la propensione dell’artista verso la tecnica del collage, già utilizzato in altre sue opere, che, in quest’occasione, Veronesi ha declinato nella forma del telaio jacquard, realizzando arazzi dalle grandi dimensioni, in cui si combinano elementi del linguaggio – nomi di piante e fiori dalle proprietà curative – con siluette di donne e alberi, germogli, tronchi, rami, foglie. L’ispirazione deriva dalla figura di Hannah Ryggen, artista norvegese che utilizzava i suoi arazzi per denunciare le storture e le contraddizioni della società del Novecento, come enormi manifesti, i cui destinatari erano la società e i suoi concittadini.

Ad accompagnare il progetto, allestito in maniera differente in ogni sede – MOCA London, Regno Unito; The Hannah Ryggen Centre, Norvegia; Ca’ Pesaro Galleria Internazionale d’Arte Moderna, Venezia, museo di destinazione dei nuovi lavori, che entreranno a far parte della collezione permanente e KORA, a Castrignano dei Greci (Lecce), a concludere un ciclo di mostre nazionali e internazionali – un video in stop motion, collages, lavori in tessuto e una registrazione audio, in cui lingue indigene vengono rimescolate e mischiate, fino al raggiungimento di una tonalità astratta e irriconoscibile, che si confonde con i suoni di una foresta notturna. 

Le lingue stanno alle piante come i nomi delle botaniche stanno alla storia della scienza: parole inghiottite dalle foreste o estirpate dalle enciclopedieha spiegato l’artista. In questo intreccio di colori e figure, l’essere umano entra in simbiosi con il contesto in cui vive, con una realtà selvaggia in cui ancora ci si può perdere, che esiste in simbiosi e in contrasto con l’azione dell’uomo, fuori di sé, combinandosi e scomponendosi, così come accade per l’oralità. Negli arazzi, le parole – nomi di piante in lingue indigene, nomi degli apparati del corpo umano collegate all’uso delle piante, nomi delle popolazioni a rischio di estinzione e nomi di botaniche e scienziate – da chiare e leggibili, spariscono, diventano opache, flebili, lontane, pericolosamente a rischio.

Non bastano i cinque sensi, a comprendere il reale. Serve dare voce, crearlo attraverso la lingua. È da questo interrogativo – quanto il linguaggio influisca sulla permanenza di cose e persone – e dalla lettura di articoli accademici che Lucia Veronesi aveva cominciato a lavorare al suo progetto, forse senza pensare a quanto il porsi queste domande avrebbe potuto condurla lontano: fino alle più profonde e fitte foreste dall’Amazzonia, fino alle voci, dolci, misteriose, a volte deboli, di chi, possedendo la conoscenza della lingua, vuole ancora raccontare, comunicare, trasmettere e, davanti agli effetti del tempo e dell’uomo, comunque non si arrende.

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