La Grande Rapina al Louvre. Tutto quello che avreste voluto sapere sul furto dei Gioielli di Napoleone: dinamica, indagini, scenari internazionali

Parigi, domenica mattina. È una giornata sonnecchiosa e un po’ malinconica. Non piove, ma il cielo è grigio, leggermente plumbeo; la Senna scorre come stagno liquido e il pavé del Quai François-Mitterrand trattiene un’umidità sottile. Sembra una di quelle mattine d’autunno care a George Simenon, dove tutta Parigi appare avvolta in un velo liquido, un misto di nebbia e di umidità che impregna ogni cosa: “Sembrava, quel giorno, che tutti i parigini mattinieri godessero di quell’aria lattiginosa come ne godeva Maigret, e l’unico segno di inquietudine era la voce roca dei rimorchiatori che proveniva dalla Senna avvolta nella nebbia…”. Rimorchiatori a parte, lo scenario appare (quasi) immutato da quando Maigret passava lento sul selciato diretto al suo ufficio al Quai des Orfèvres, o per andare a farsi un bicchiere di birra alla Brasserie Dauphine: oggi, davanti alla piramide del Louvre (che ai tempi di Maigret non c’era ancora), sulla piazza ancora semivuota, passano a tratti i primi visitatori, qualcuno con il biglietto in mano, qualcuno soltanto di passaggio. I gendarmi si scambiano brevi saluti, il vento muove le bandiere, l’aria ha quell’odore tipico delle domeniche parigine, un miscuglio di pietra umida e di un qualche aroma che esce dai caffè. Nessuno immagina che, di lì a poco, il museo più visitato e più celebre del mondo diventerà teatro di uno dei furti più incredibili e audaci della storia recente.

Il colpo (in soli sette minuti)

Il museo è aperto da circa mezz’ora quando un camion si accosta piano lungo il Quai François-Mitterrand, proprio sotto la facciata che guarda la Senna. È un mezzo da cantiere, niente di memorabile: il tipo di veicolo che a Parigi s’infila ovunque, tra lavori, cantieri mobili, interventi di ordinaria manutenzione. Dal pianale scivola fuori una nacelle, un piccolo montacarichi a braccio. Sulla pedana, due uomini indossano i celebri gilets jaunes, i gilet ad alta visibilità divenuti, una manciata di anni fa, simbolo delle proteste anti-macroniste, ma più generalmente noti, e riconoscibili, come divise da lavoro. Sono abiti che a Parigi si vedono di continuo: segnalano lavori, manutenzione stradale, incarichi minuti e apparentemente innocui. Qualcuno pensa a un intervento sugli infissi o sui vetri del museo, altri, nell’aria lenta e sonnacchiosa della domenica, non notano nemmeno ciò che sta accadendo. La città è abituata al rumore di fondo di chi monta e smonta, lima e ripara, se capita, anche di domenica.

Il braccio si alza con movimenti accorti, geometrici. Il ronzio elettrico si perde nel traffico del lungosenna. La pedana si accosta a una finestra del primo piano dell’Aile Denon del Louvre: pochi secondi, la postura sicura di chi ha provato e riprovato quel gesto. Una lama circolare entra in azione: la disqueuse canta un suono secco, metallico, un taglio netto che, a quell’ora, si confonde col cantiere permanente della città. La finestra al primo piano cede. L’operazione, diranno più tardi gli inquirenti, è condotta con precisione e tempi da cronometro.

Dentro il museo c’è luce, non il buio di una rapina notturna: è pieno giorno e il Louvre ha aperto alle nove. Tra le 9:30 e le 9:40, in sette minuti esatti secondo il ministro dell’Interno, i ladri attraversano il perimetro che li conduce fino alla Galerie d’Apollon. È una sala-simbolo, lunga e dorata, scrigno dei Gioielli della Corona; pochi musei al mondo concentrano in così pochi metri tanto valore storico e simbolico. Le vetrine sono teche ad alta sicurezza. Eppure due colpi precisi bastano: la prima teca, la sezione dei bijoux des souverains français, si apre con un taglio pulito; la seconda, quella dei bijoux Napoléon, segue subito dopo. Un attimo, e otto oggetti preziosissimi escono di scena: diademi, collane, orecchini, una broche (una spilla). Tra essi, il diadema dell’imperatrice Eugénie e gioielli legati a Marie-Amélie e Hortense, ma anche pezzi della parure di Marie-Louise. I passaggi sono rapidi, provati e riprovati più volte; i gesti decisi, professionali; all’interno, alcuni visitatori e personale notano l’anomalia quando è già troppo tardi.

Il mistero degli allarmi

E gli allarmi? “Sono scattati gli allarmi posizionati sulla finestra esterna della Galleria d’Apollon e sulle due vetrine”, dichiara, a poche ore dal furto, il Ministère de la Culture in un comunicato. “Al momento dell’irruzione, particolarmente rapida e brutale, i cinque membri dello staff presenti nella galleria e nelle aree adiacenti sono immediatamente intervenuti per applicare il protocollo di sicurezza: contattare le forze dell’ordine e garantire la protezione prioritaria delle persone”. Eppure, già nelle prime ore, ecco affiorare i primi dubbi. Didier Rykner, sessantatre anni, critico d’arte diplomato all’École du Louvre e fondatore del giornale online La Tribune de l’Art, accusa: “Gli allarmi sulle finestre erano disattivati: me lo hanno confermato diverse fonti e ho visto un documento che lo prova“. Secondo Rykner, solo quelli delle teche avrebbero funzionato: gli altri, già disattivati da almeno un mese, non avrebbero registrato anomalie neppure di fronte al taglio o alla rottura dei vetri. Se l’affermazione fosse confermata, resterebbe da capire perché quegli allarmi fossero stati inibiti. “Un mese fa l’allarme della finestra è stato disattivato perché scattava a sproposito”, aggiunge lo storico dell’arte. Viene il sospetto, ipotesi che resta tale finché l’inchiesta non la suffragherà, che quel “falso allarme” possa essere stato incoraggiato a bella posta, per poi avere mano libera al momento del colpo; in questo scenario, particolarmente inquietante, e speriamo non confermato, andrebbe cercata una “talpa interna”, incubo di ogni museo (come di ogni banca).

Quel che è certo, è che gli allarmi scattano senza ombra di dubbio al momento della rottura delle due teche di vetro. Il posto centrale della sureté riceve il segnale, i protocolli di sicurezza vengono attivati immediatamente. Viene ordinata la chiusura del museo, i visitatori sono evacuati senza incidenti. Nel frattempo, il furto è accertato e la scena del crimine viene congelata, in attesa degli specialisti. Ma dove sono finiti i ladri, cos’hanno rubato, e soprattutto, come hanno fatto a dileguarsi così in fretta?

Fuga rocambolesca

La fuga è, a quanto risulta, la parte più semplice del piano: uno o due scooter attendono i ladri in strada (di sicuro, si trattareebbe di uno o di due TMax, gli scooter ambitissimi dai ragazzini e dai cosiddetti “maranza”, perché veloci, potenti e dall’ottima tenuta di strada); gli uomini in gilet giallo ridiscendono con la stessa naturalezza con cui sono saliti dalla scala, saltano sui motorini e si danno alla fuga. Prima, però, hanno il tempo di accendere una miccia per dar fuoco al camion utilizzato per il furto, ma una guardia della sicurezza del museo, accorsa nel tentativo di fermarli, riesce almeno a sventare l’incendio. Un attimo, e i ladri spariscono per le vie, a quell’ora di domenica, poco trafficate, di Parigi. Nella concitazione, però, un oggetto si perde a pochi isolati di distanza: è proprio la corona dell’imperatrice Eugénie, che verrà poi recuperata, seppure danneggiata. Un secondo oggetto verrà invece ritrovato all’interno, nella sala dell’effrazione.

Mentre i ladri fanno perdere le loro tracce — si scoprirà in seguito che si sono diretti verso l’autoroute A6, l’autostrada che da Parigi conduce a Lione — gli inquirenti delimitano l’area attorno al camion abbandonato sul Quai François-Mitterrand. A terra, tra i frammenti di vetro e l’odore acre del carburante, vengono trovati un walkie-talkie ancora acceso, un guanto da lavoro impregnato di polvere di vetro, una coperta ignifuga, un cutter industriale, una fiamma ossidrica e due smerigliatrici angolari. Sul pianale del veicolo, abbandonati in fretta, restano anche una tanica di benzina e un paio di caschi integrali. Il camion, risultato rubato due settimane prima nella banlieue di Saint-Denis, reca targa clonata e documenti falsificati.

Nel giro di un’ora la notizia corre. La presidente del Louvre coordina la risposta con la Prefettura di Parigi e con la BRB, Brigade de Répression du Banditisme, affiancata dall’OCBC, l’Ufficio Centrale per la Lotta contro il Traffico dei Beni Culturali. Sessanta investigatori vengono mobilitati. Le immagini di videoprotezione del museo e della città vengono acquisite; si setacciano le vie di fuga, le telecamere lungo la Senna, i caselli autostradali. Alle 11:30 il ministro dell’Interno parla di “un’operazione rapidissima e brutale, condotta da professionisti esperti e perfettamente informati dei protocolli di sicurezza”. Il presidente Emmanuel Macron, da Berlino dove è in visita ufficiale, esprime “sconcerto e indignazione per un attacco al cuore del patrimonio nazionale” e promette “una risposta immediata, all’altezza del simbolo colpito”. Il ministro dell’interno, Laurent Nuñez, ex prefetto di Parigi, dichiara che “si tratta chiaramente di una squadra molto esperta, che aveva fatto sopralluoghi e ha agito con una rapidità impressionante”, aggiungendo che “tutte le brigate centrali della prefettura di polizia saranno mobilitate”. Tra gli inquirenti, tuttavia, ci si comincia a chiedere, come di prammatica, se i ladri non possano aver avuto una qualche forma di appoggio o di informazione, anche involontaria, dall’interno: forse da qualcuno che conosce bene la geografia e la logistica del Louvre, e che potrebbe, anche solo in modo indiretto o addirittura in maniera del tutto inconsapevole, aver fornito indicazioni su orari, accessi e routine di sicurezza.

La polemica sulle falle nella sicurezza

Nel giro di poche ore, intanto, si accende il dibattito politico. L’opposizione parla di “fallimento dello Stato culturale”. Mentre Marine Le Pen parla di “ferita all’anima francese”, l’ex presidente dei Républicains, oggi vicino al Rassemblement National della Le Pen e di Bardella, Éric Ciotti, twitta che “mentre il governo pensa alle riforme simboliche, i gioielli della Francia vengono portati via in pieno giorno”. A sinistra, invece, la leader di La France Insoumise, Mathilde Panot, replica che “non è solo un furto, è l’effetto di una privatizzazione strisciante della cultura”. I sindacati rilanciano: la direzione del Louvre, attaccano, ha appena condotto un audit di sicurezza, ma le organizzazioni del personale denunciano da mesi la mancanza di risorse umane. “In dieci anni abbiamo perso centonovanta posti nella sicurezza e nella sorveglianza del museo: è stato eliminato il quindici per cento dell’organico”, spiega Elise Muller, agente di vigilanza al Louvre e rappresentante del sindacato SUD Culture. Nel frattempo, il museo resta chiuso, il pubblico bloccato dietro i nastri rossi e bianchi della gendarmerie, mentre una pioggia fine comincia a velare le vetrate del Cour Napoléon.

In controluce restano i dettagli umani: la coppia di turisti che filma la piramide e, sullo sfondo, un lampeggiante che nessuno ascolta; il custode che si volta perché qualcosa non torna nel riflesso di una teca; i passanti che, vedendo i gilet gialli, pensano a un’impresa mandata dal Comune per sistemare una finestra o ritoccare una cornice.
Parigi è anche questo: un teatro in cui la manutenzione e il crimine sanno somigliarsi per alcuni minuti, il tempo esatto perché una storia cambi senso. Intanto, però, le indagini entrano nel vivo.

La Brigade criminale non basta? In “soccorso” una società di cybersicurezza israeliana

Vengono mobilitati circa sessanta investigatori della BRB, la Brigade de Répression du Banditisme della polizia giudiziaria di Parigi e dell’Office Central de Lutte contre le Trafic des Biens Culturels. Ma c’è un piccolo giallo nel giallo. Una società di intelligence israeliana, la CGI Group di Tel Aviv, ha dichiarato di essere stata contattata direttamente dal museo per contribuire alle indagini. “Eccezionalmente, il Louvre ci ha chiesto di rivelare l’identità delle persone coinvolte nel furto e di restituire i tesori rubati, data la nostra esperienza e il nostro successo nel risolvere il furto di un miliardo di euro a Dresda, in Germania, nel 2019”, ha dichiarato Zvika Naveh, presidente e CEO della società, all’Agence France-Presse. La CGI Group – co-fondata da Naveh e da David D. Bar-Lev, già dirigente dello Shin Bet, i servizi di sicurezza interni israeliani, e tuttora legata a reti industriali e diplomatiche vicine al governo Netanyahu – è una delle realtà più note nel campo dell’intelligence privata, della cybersicurezza e del tracciamento di dati e flussi finanziari internazionali. Non un’azienda museale, dunque, e neppure nota per i suoi servizi nel campo dei furti d’arte, ma una struttura che opera nei settori della sicurezza strategica, capace di intervenire su dossier di natura economica o politica. Secondo analisti francesi, la rapidità con cui è stata coinvolta suggerisce che le autorità considerino il furto non soltanto come un episodio di criminalità organizzata, ma come un possibile tassello di un più ampio sistema di traffici internazionali, dove i confini tra ricettazione, finanza e geopolitica si confondono.

Il furto dei gioielli di Dresda

Significativo è il caso del furto al museo Grünes Gewölbe di Dresda, non a caso citato dalla stessa agenzia di cybersecurity israeliana. All’alba del 25 novembre 2019, una banda del clan Remmo – una delle famiglie criminali più potenti di Berlino, di origine libanese, attiva dagli anni Ottanta nei traffici di oro, auto di lusso e opere d’arte – si introdusse nel museo del Grünes Gewölbe di Dresda, portando via ventuno gioielli per un valore stimato in oltre cento milioni di euro. Fu proprio allora che la CGI emerse per la prima volta sulla scena internazionale in un caso di furti d’arte, dichiarando di aver intercettato sul dark web offerte di vendita della refurtiva e di averne informato le autorità.
I procuratori tedeschi smentirono ogni rapporto ufficiale, ma anni dopo si scoprì che alcune delle piste digitali individuate dalla società israeliana avevano effettivamente aiutato gli investigatori a localizzare parte del bottino.
Da allora, il nome di CGI circola in ambienti di polizia e diplomazia come quello di un attore di confine, sospeso tra intelligence economica e sicurezza internazionale. Ma perché il Louvre ha ritenuto necessario rivolgersi a un soggetto di quel livello, e per di più straniero?
È la domanda che comincia a rimbalzare nelle redazioni. L’ipotesi più plausibile è che, dietro il furto, vi siano ramificazioni internazionali, e che l’inchiesta rischi di toccare interessi e reti che vanno ben oltre la giurisdizione francese: snodi europei di ricettazione, piattaforme digitali di scambio, e forse anche circuiti finanziari collegati a traffici in Medio Oriente.

Il coinvolgimento di CGI non sarebbe dunque un segno di sfiducia nelle strutture francesi, ma il sintomo di un cambio di scala. Il furto, in questa prospettiva, non appare più soltanto un atto spettacolare di cronaca nera, ma un episodio potenzialmente inscritto in una rete di potere e denaro che attraversa più continenti, forse arrivando attraverso le sue ramificazioni criminali ad ambienti medio-orientali. Singolare, infatti, per una società che si occupa di cybersicurezza, in cui ogni parola viene pesata, è che i vertici della CGI abbiano fatto cenno al furto di Dresda, nel quale il coinvolgimento della stessa società è sempre stato tutt’altro che ufficiale. Anche oggi, del resto, la notizia della cooptazione della CGI nel furto al Louvre è circolata un po’ in sordina, limitata a un trafiletto d’agenzia. In questo scenario, il richiamo esplicito a Dresda, da parte della CGI, potrebbe non essere stato soltanto una rivendicazione di competenza in materia di furti d’arte, ma anche una sorta di “messaggio cifrato”, indirizzato a interlocutori operativi – un modo per segnalare che il dossier ha dimensioni internazionali e che, come a Dresda, potrebbero esserci collegamenti con reti e canali che si estendono fino al Medio Oriente. La stessa rapidità con cui la società è stata coinvolta, del resto, suggerisce che le autorità valutino il furto non soltanto come episodio di criminalità organizzata locale, ma come un possibile tassello di un più ampio sistema di traffici internazionali, dove i confini tra ricettazione, finanza e geopolitica si confondono. Il coinvolgimento di CGI non è dunque da leggere come un segnale di sfiducia verso le strutture investigative francesi, quanto l’indicazione che il caso richiede competenze e aperture investigative su scala transnazionale.

I gioielli della Corona: il bottino del secolo

Il colpo al Louvre non è soltanto un furto spettacolare, ma un gesto che colpisce il cuore simbolico della Francia.
Nella Galerie d’Apollon, il luogo più sontuoso del museo, decorato da Le Brun e Delacroix per volere di Luigi XIV, si conservavano i gioielli della Corona di Francia: oggetti che appartenevano alle grandi dinastie reali e imperiali, testimoni di secoli di potere, gusto e rappresentazione.
Le due teche forzate dai ladri custodivano otto pezzi unici, tutti di valore storico e patrimoniale “inestimabile”, come ha ricordato la ministra Rachida Dati.

L’elenco, diffuso poche ore dopo il furto, è da solo un compendio di storia francese.

  • Il diadema della parure di Marie-Amélie e Hortense: appartenuto alla regina Marie-Amélie di Borbone, moglie di Luigi Filippo, e a sua figlia, la regina Hortense, madre di Napoleone III. Un capolavoro di oreficeria ottocentesca, con zaffiri e diamanti montati in oro e argento, simbolo di una monarchia borghese e modernizzatrice.
  • Il collier di zaffiri di Marie-Amélie e Hortense, con pietre blu di Ceylon e 631 diamanti, probabilmente realizzato tra il 1830 e il 1840 dal gioielliere Bapst.
  • Una delle due boucles d’oreilles della stessa parure, scomparsa insieme al collier e al diadema.
  • Il collier di smeraldi della parure di Marie-Louise, la seconda moglie di Napoleone I, composto da trentadue smeraldi e oltre mille diamanti, dono dell’imperatore alla giovane arciduchessa d’Austria come segno di alleanza tra la Francia e gli Asburgo.
  • Una coppia di orecchini in smeraldi di Marie-Louise, dallo stesso insieme, di fattura raffinata e di provenienza viennese.
  • Una broche reliquaire, un piccolo scrigno d’oro e pietre, probabilmente legato a un uso votivo, risalente agli anni del Secondo Impero.
  • Il diadema dell’imperatrice Eugénie, la moglie di Napoleone III, ornato da quasi duemila diamanti e 56 smeraldi, opera della maison Lemonnier, la stessa che firmava i gioielli di corte durante l’Esposizione universale del 1855.
  • Il grand nœud de corsage, un nastro-broche sempre dell’imperatrice Eugénie, concepito per adornare gli abiti da ballo, tempestato di diamanti e pietre verdi.

Insieme, questi otto oggetti raccontano un secolo di storia francese, dall’ascesa borghese dei Borbone-Orléans all’apogeo e alla caduta del Secondo Impero. Molti furono dispersi dopo la vendita all’asta del 1887, quando la Terza Repubblica — in un gesto politico di rottura — decise di liquidare i beni della monarchia.
Fu un evento che segnò la fine simbolica della regalità in Francia: le corone e i diademi furono smontati, venduti o rifusi, ma una parte di essi, con il passare degli anni, venne recuperata da collezionisti e infine restituita al Louvre, dove tornò a rappresentare la memoria preziosa di un passato scomparso. Ecco perché il furto non è solo un danno materiale: è una ferita identitaria, un colpo al patrimonio di Stato e alla memoria storica della nazione. “S’en prendre au Louvre, c’est s’en prendre à notre histoire et à notre patrimoine”, “Attaccare il Louvre significa attaccare la nostra storia e il nostro patrimonio”, ha dichiarato il ministro dell’Interno Laurent Nuñez.

Per i ladri, invece, comincia ora la parte più difficile. Perché un gioiello come il diadema di Eugénie non può essere rivenduto: è un oggetto riconoscibile in ogni dettaglio, immortalato in decine di cataloghi e immagini ufficiali.
Nemmeno smontarlo risolverebbe il problema, perché ogni gemma — diamante o smeraldo — è registrata in banche dati internazionali, fotografata e tracciata attraverso il taglio, la purezza e la fluorescenza.
Il mercato illegale dei gioielli storici non funziona come quello dell’arte contemporanea: non si tratta di tele che possono essere occultate o vendute privatamente. Qui, ogni pietra è un documento d’identità, e chi la muove lascia una scia.

È in questa rete invisibile che si gioca ora la partita vera: non più a Parigi, ma tra Dubai, Anversa, Tel Aviv e Hong Kong, dove le grandi piattaforme di scambio di pietre preziose si incrociano con mercati opachi e intermediari specializzati nel “ripulire” gemme antiche. Probabile, dunque, che proprio la CGI Group abbia oggi il compito di monitorare quei flussi: algoritmi che scandagliano il web alla ricerca di pietre compatibili per taglio e caratura, o di fotografie sospette pubblicate su piattaforme criptate.

Un complotto politico-economico internazionale?

Quel che è certo, dunque, è che, ora più che mai, l’indagine procede su due livelli: da un lato la caccia fisica ai quattro ladri in gilet giallo, la ricostruzione dei loro spostamenti, dei dati e dei flussi che si sono lasciati fisicamente, e digitalmente, dietro; dall’altro, una rete di indagini “invisibili” che passano per server, flussi crittografati e piattaforme di commercio clandestino. È qui che si giocherà la partita vera: se i gioielli, com’è verosimile, rischiassero di essere smembrati e venduti pezzo per pezzo, dissolvendosi nel mercato globale delle gemme, potrebbe essere necessario seguirne le flebili tracce, muovendosi tra algoritmi, broker, intermediari fantasma e società-ponte: una nuova geografia del crimine, dove il lusso rubato si trasforma in informazione, e l’indagine diventa una guerra di dati.

Ma, dato il peso non solo economico, ma anche storico e politico del “bottino” regale, c’è un’altra ipotesi che non può certo essere sottovalutata: ovvero, che i preziosissimi gioielli non siano affatto stati rubati per essere smembrati e riuvenduti, ma come moneta di scambio politico-economica da giocarsi su uno scenario internazionale. Un oggetto di ricatto, insomma, o meglio di scambio, di dare e avere in politica estera, all’interno di una partita molto più vasta, che travalica le “normali” mosse della diplomazia nazionale, in uno scenario internazionale delicato e fragilissimo, in cui la Francia si muove come uno degli attori principali, ma la cui debolezza in politica interna oggi la rende debole ed esposta, nolto più facilmente che in altri momenti.

In un’ipotesi come questa, certo degna di un romanzo di Le Carrè, ma tutt’altro che inverosimile, assume sempre più senso, allora, anche il coinvolgimento della società israeliana di cyber sicurezza nel collabore con le autorità francesi e, a conti fatti, forse anche nel “tirare i fili” dell’intera vicenda diplomatico-investigativa. In uno scenario quantomai confuso come quello attuale, per la Francia come per l’Europa, sia in tema di politica interna che di politica internazionale, di fronte a un furto “impossibile” come quello dei gioielli del Louvre, appare tutt’altro che incongruo rispolverare il famoso detto: cui prodest?

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui

Didatticarte: Il volto inclusivo del collezionismo didattico

Dopo quasi quindici anni dalla creazione del sito Didatticarte.it, Emanuela Pulvirenti continua ad essere attivissima nell’ambito della didattica della storia dell’arte, dedicandosi infaticabilmente alla divulgazione di contenuti specialistici attraverso i diversi canali social.

Artuu Newsletter

Scelti per te

Le strane creature aliene di Ivana Bašić alla Galleria Minini

L’ambientazione rigorosa intorno ai bianchi delle pareti da cui sporgono i corpi di Fantasy vanishes in flesh, titolo della mostra e dell’opera all’ingresso, perde la sua chirurgica artificialità per addentrarsi in una dimensione altra e alterata mostrando (in un continuo gioco di parole) un’alterità che guarda al futuro.

Al Maschio Angioino di Napoli il classicismo inquieto di Jim Dine

Classicismo e contemporaneità, sospesi tra frammentazione e perfezione. Ha aperto oggi, a Napoli, “Elysian Fields”, una mostra site-specific allestita al Maschio Angioino che mette in dialogo la visione di Jim Dine, icona dell’arte contemporanea, con gli ambienti monumentali del castello trecentesco recentemente riqualificati.

La forma della luce. Beato Angelico e il tempo sospeso della pittura (pt.1)

Curata da Carl Brandon Strehlke, con Stefano Casciu e Angelo Tartuferi, l’esposizione si sviluppa come un pellegrinaggio laico attraverso più di 140 opere, tra pale dorate, crocifissioni, ritratti e miniature, fino a toccare i luoghi dove l’Angelico ha realmente vissuto e lavorato.

Seguici su Instagram ogni giorno