Un titolo accattivante e un dialogo intergenerazionale tra due artiste: alla C+N Gallery CANEPANERI di Milano ha inaugurato la mostra “A Hyena Wore My Face Last Night”, un’esposizione che esplora i temi della femminilità, della trasformazione, del travestimento e della linea sottile che separa l’umano dall’animale.
Curata da Joséphine May Bailey, la bipersonale con Holly Stevenson e Amelie Peace fonde pittura, acquaforte e ceramica in un dialogo che trapassa le maschere dell’identità per sondare ciò che l’aspetto nasconde o forse svela.
“Le due artiste hanno sviluppato questa mostra in stretto dialogo tra loro e con la curatrice, attingendo a ricerche su Leonora Carrington, ispirandosi al racconto “La debuttante”.

Visitando l’esposizione, questa citazione emerge con chiarezza. La vicenda della iena che divora, imita, sostituisce, non viene semplicemente citata bensì diventa metodo interpretativo: la metamorfosi si fa chiave di lettura per l’atto del mostrarsi. Con lo stesso spirito del racconto – comico, macabro e sovversivo – diventa lente attraverso cui osservare i riti contemporanei del sé, pratiche e gesti attraverso cui oggi costruiamo e trasformiamo la nostra identità. Nelle opere si coglie un passaggio sospeso tra umano e animale, tra il desiderio di appartenere e quello di perdersi in diverse sembianze. L’esposizione diventa anche un’indagine su quel momento liminale, quando un’identità appare ancora riconoscibile ma già sul punto di scivolare nell’indefinito, di trasformarsi in altro.
Se il titolo è accattivante, il dialogo delle opere allestite attrae. Il contrasto materiale tra i volumi tridimensionali di Stevenson e le superfici bidimensionali di Peace viene sfruttato per creare tensione visiva. Le sculture incuriosiscono, provocano, ma vengono bilanciate dal gesto pittorico più intimo e materico dei dipinti.

Stevenson, con le sue ceramiche, propone oggetti che oscillano tra bellezza ed inquietudine: maschere dalle fattezze feline, tacchi-zampe che destabilizzano la simmetria estetica, manufatti che invitano lo sguardo ad interrogarsi sull’artificio. Le nuove ceramiche, in particolare le opere esposte a parete nella prima sala, “The most difficult thing was, how to disguise her face”, “I shall wear her face instead of mine this evening” (2025), mettono in scena maschere ed orecchie feline, dove la tensione tra levigatezza estetica e perturbante è fortissima. Inoltre l’allestimento a parete accentua la dimensione e la carica visiva di questi volti. I tacchi ceramici invece assumono l’aspetto di reliquie contemporanee, in bilico tra tecnologia e travestimento. La loro natura resta ambigua: sono sculture, scarpe, costumi, oppure zampe e zoccoli pronti a trasformarsi? È forse proprio in questa indecisione che risiede la loro forza: l’artista abbatte i confini di genere e di funzione, collocando l’oggetto in uno spazio non fisso né definitivo.

Peace, d’altra parte, trascina lo spettatore in interni dominati da figure che sfumano tra umano e animale, in gesti di desiderio e dominio, con sguardi che sfuggono a qualsiasi lettura rassicurante. Tutti si possono ritrovare nei suoi personaggi incerti, fluidi, dominati o dominanti. Le sue tele, come “You asked for the leash” (2025), mostrano figure ambigue dalle espressioni intense, capaci di giocare e mettere in discussione le ideologie sessuali, emotive e sociali. Di forte impatto e molto interessanti anche le incisioni: Wolf Skin, Entre Chien et Loup, Beyond Recognition, che più strettamente indagano la pelle animale come ornamento e camuffamento, quella sottile soglia tra un’identità riconoscibile e una che scivola nell’indefinito. Qui l’artista lavora sul confine tra attrazione e repulsione: la pelle diventa costume, maschera, superficie da indossare, ma anche membrana che tradisce fragilità e metamorfosi.
In un’epoca in cui la superficie – il volto, l’immagine, la pelle – è spesso il veicolo principale di riconoscimento sociale, questa mostra ricorda quanto l’identità sia mutevole ed incerta.
“Una iena ha indossato il mio volto la scorsa notte” è per chi accetta di guardare oltre il volto. È una di quelle mostre che provocano domande: che cosa significa essere umani, che cosa nascondiamo, quali aspetti “animali” siamo portati ad accogliere o rifiutare.


