Nel 1924, il pittore francese Fernand Léger (1881–1955), insieme al regista americano Dudley Murphy, presentò al cinema Ballet Mécanique: un cortometraggio sperimentale che si proponeva come un vero manifesto visivo della modernità industriale, celebrando l’estetica della macchina e la meccanizzazione della realtà. Il corpo umano veniva mostrato come parte di un ingranaggio, inserito in una sequenza di oggetti e movimenti meccanici, senza trama né colonna sonora (sincronizzata solo decenni più tardi dal compositore George Antheil). Nel “nuovo realismo” di Léger, la realtà moderna veniva restituita come un caleidoscopio di forme semplificate, colori primari, elementi geometrici e figure umane meccanizzate, tutto mosso da un ritmo accelerato e incalzante.
Quando Pierre Restany e Yves Klein coniarono il termine Nouveau Réalisme [Nuovo Realismo], poco meno di quarant’anni dopo, è probabile che avessero ben presente la lezione visiva e teorica del maestro. Non solo per la sua fascinazione per la modernità e il mito della macchina, ma soprattutto per la volontà di abbattere i confini tra arte e vita. La strada stava diventando sempre più il nuovo palcoscenico della società consumistica (siamo negli anni del boom economico), e gli artisti sentono il dovere morale di smascherarne i meccanismi.

Sono gli anni in cui la cultura visiva popolare esplode: dalle canzoni leggere delle giovani ragazze francesi, che raccontano amori disillusi e spensierati, agli incontri romantici e giocosi della nuova gioventù urbana. La stessa energia che si ritrova nei lavori di Arman, Daniel Spoerri, Niki de Saint Phalle, Jean Tinguely, Alain Jacquet, César e, nelle sue prime prove, anche Christo. Le loro opere sono attualmente alla Reggia di Venaria, nelle Sale delle Arti, fino al 1° febbraio 2026.
La mostra si sviluppa come un racconto per sezioni tematiche, in cui le opere di Fernand Léger dialogano con quelle di artisti che, in modi diversi, ne hanno raccolto l’eredità e ne hanno ampliato la visione. Il percorso si apre con il colore, inteso come elemento primordiale e vitale, una forza pura e persino terapeutica, capace — come in Klein — di generare benessere e armonia collettiva. Segue il tema della macchina, simbolo della modernità e della sua ambivalenza: sospesa tra immobilità e dinamismo, tra struttura e impulso, come nelle opere di Arman. Poi c’è il corpo, che da frammento si ricompone, si trasforma, si fa movimento e vitalità, secondo le visioni di Jacquet e Niki de Saint Phalle. Infine, il gesto, che diventa azione, performance, atto situazionale: un modo per restituire all’arte la sua dimensione più fisica e partecipata, come accade nei lavori di Tinguely e Spoerri.

Nella sezione centrale della mostra, l’oggetto – spesso quotidiano, usurato o industriale – occupa un ruolo centrale. Questo evidenzia come, nella volontà degli artisti, la sfida al feticismo della forma fosse necessaria al criticismo della società dei consumi (Arman, César). La nuova pubblicità – nei manifesti, nelle vetrine, nei caratteri tipografici – adottava un linguaggio visivo fatto di lettere, numeri e colori accesi, capace di creare un immaginario folkloristico e immediato. Gli artisti del Nouveau Réalisme riconobbero in questo stesso linguaggio una forma di “estetica della strada”, che Léger aveva già intuito e anticipato.

Infine, uno dei lasciti più duraturi del pittore – e che in mostra viene ricordato attraverso l’unica opera di Keith Haring – è l’idea di un’arte urbana, pubblica, accessibile, capace di esprimere l’individualità e al tempo stesso di appartenere al paesaggio visivo collettivo. La mostra mette in evidenza quanto i Nuovi Realisti abbiano saputo riconoscere la forza anticipatrice del pensiero di Fernand Léger. Non solo gli diedero una maggiore attenzione per i temi sociali, ma anche il merito di una lettura moderna della società e di una ricerca sempre più pervasiva di un’aderenza tra creazione artistica e realtà vissuta.


