L’Anima Nomade di Francesco Clemente si accampa a Roma, negli ampi spazi del Palazzo delle Esposizioni. Dopo aver viaggiato per decenni, corpo e spirito trovano riposo nella Città Eterna, trasformando le mura del Palazzo in un tempio. Come ogni luogo sacro, non mancano simboli, icone e iscrizioni che creano quella particolare atmosfera silenziosa e solenne, invogliando alla preghiera e alla meditazione.
Clemente è un architetto mancato che non progetta palazzi, ma interi mondi, costruzioni in parte immaginarie, conseguenza quasi inevitabile del suo essere errante. Senza mai dimenticare le origini napoletane, la sua arte è un palinsesto in cui le esperienze vissute, sovrapponendosi, si stratificano, stabilendo una connessione profonda.

Tornare a Roma vuol dire rifugiarsi in un luogo importante per la sua formazione, una casa che lo ha accolto giovane e senza esperienza e che oggi lo riabbraccia, insieme all’enorme bagaglio che porta con sé. Ed è proprio qui che Francesco Clemente tira le somme di tutte le esperienze vissute vagando per mondi e culture diverse.
Ogni elemento è il frutto di una riflessione personale, a partire dalla serie di sei Tende, un lavoro durato due anni in collaborazione con una comunità di artigiani nel Rajasthan, in India. Sono abiti cuciti nel corso degli anni, viaggio dopo viaggio, filo per filo, prima nella mente dell’artista e ora visibili e indossabili da chiunque.

Pitture abitabili, super intime e fragili, ma ingombranti. Le tende sono come gli organi di un corpo, polmoni che permettono al Palazzo di respirare. I disegni di Clemente popolano le pareti di cotone, xilografie stampate a mano, intagliate sugli schizzi originali e infine dipinte con tempere brillanti. Con le funi tirate, i pali di bambù eretti e i pesi di ferro a terra, le tende sono le vele di una nave ferma al porto, pronta a salpare verso terre sconosciute, fuggendo da una vita meccanica piena di imposizioni e falsi doveri.
È un’architettura che non ha fondamenta, non viola il terreno, rispettandone la natura; entrando al suo interno si inizia un viaggio alla scoperta di un nuovo universo, attraverso ricordi ancora vivi e pensieri immaginari. Calpestando il tappeto di bambù l’odore pungente arriva alle narici, portando alla mente antiche memorie di popoli lontani, capanne di paglia e fango in foreste di verde immenso, riti e danze ancestrali, figure semiumane che vegliano su di noi, piante e animali selvatici.

A segnalare l’accampamento è un corridoio di dodici Bandiere dipinte e ricamate. Emblema che contraddistingue una società, la bandiera unisce l’uomo in un unico popolo. Sono simboli che Clemente decide di decorare con alcune frasi del celebre testo La società dello spettacolo di Guy Debord, un pensiero forte che conferisce una direzione ben precisa all’opera.
Da spettatori passivi di un mondo che è rappresentazione, un mix di menzogna e verità, le file di bandiere sembrano costituire un passaggio a un altro mondo, la passerella che ci accompagna ad una nuova vita. Ad accoglierci dall’altra parte, dipinto sulla parete, c’è un uovo con un germoglio al suo interno, icona della creazione eterna: una luce di speranza ancora accesa a ricordarci che rinascere è possibile.

È un Oceano di storie a concludere il percorso, un ciclo di pitture realizzato direttamente sulle pareti del Palazzo. Sanguigna e tempera compongono le figure sul muro, ombre ricolme di una serie di onde, un mare che sommerge le sale e tutto ciò che è al loro interno.
Questo corpus di opere sembra costituire il testamento di Francesco Clemente in cui troviamo riunite non solo le esperienze di vita, ma la sua intera esistenza fatta di viaggi, studi, incontri, relazioni, persone. Ecco che nelle fitte trame di colore delle tende scorgiamo il ricordo di Boetti, mentre le onde mosse dei murales evocano l’energia dei segni veloci di Cy Twombly; De Kooning compare nelle forme distorte e nei colori accesi e la poesia Beat è nel linguaggio autentico e diretto del flusso di immagini, nel loro rapido ritmo.

Il nuovo tempio è la metafora di un giardino dell’eden dove l’uomo pianta la sua tenda, simbolo di sicurezza, riparo e, soprattutto, di casa, immagine di noi stessi e dei nostri bisogni più profondi. È una ricerca di stabilità nell’instabilità che è l’essere umano.
In un mondo che viaggia ad alta velocità, l’invito di Francesco Clemente è quello di fermarsi un istante, sedersi o perfino sdraiarsi sui tappeti di bambù e ammirare i soffitti delle tende, leggere le frasi ricamate sulle bandiere o perdersi tra le fitte onde dei murales. Ad un certo punto, però, le funi si sciolgono, si levano le ancore e le tende si spiegano al vento, pronte per attraversare altri oceani.