Fin dall’antichità classica, il filo è metafora della vita. Tessuto, misurato e reciso dalle Parche, rappresenta il destino di ogni essere umano e l’intreccio invisibile che unisce i singoli destini in un’unica trama. Chiharu Shiota reinterpreta proprio questa simbologia ancestrale e con fili di lana rossa o nera costruisce le sue architetture a partire dal movimento del suo corpo e delle sue emozioni. L’intreccio è il risultato di una tensione fisica e mentale fra l’interno e l’esterno, fra sé e il mondo. Le installazioni sono pervasive, invadono gli ambienti, avvolgono lo spettatore, costringendolo a un coinvolgimento sensoriale e psicologico. L’attrazione è inevitabile e perturbante.
Visitando la mostra monografica Chiharu Shiota: The Soul Trembles al MAO Museo d’Arte Orientale di Torino, si viene accolti da Inside-Outside (2008-2025), un’installazione composta da vecchie finestre di legno che l’artista racconta di aver a lungo osservato a Berlino. “Per sei mesi, che fossi sveglia o dormissi, non ho fatto altro che pensare alle finestre”. Impossibile non pensare a Hitchcock: Jeff e Shiota non riescono a staccarsi dalle finestre, la loro è un’ossessione più che una contemplazione. Lo sguardo, rivolto fuori da sé, diventa una forma di reclusione. Jeff è immobilizzato dal gesso, Shiota dall’impossibilità “di superare il confine della pelle”. Così noi, spettatori, di fronte alle sue installazioni, assistiamo alla sofferenza di questo processo.

La mostra ripercorre le tappe principali della ricerca di Shiota, dalla formazione accademica breve in pittura figurativa all’abbandono definitivo in favore della performatività. Il corpo diventa presenza attiva, elemento generatore di senso.
Fin dalle prime opere, l’artista evoca un ritorno alle origini, alla terra come punto d’inizio e di dissoluzione. Vita e morte sono poste sullo stesso piano, colte nella loro interdipendenza. “Quando le persone si immergono nelle mie opere d’arte voglio che capiscano cosa significhi vivere e morire”. Il filo spezzato conclude le installazioni di Shiota, ma è impercettibile a occhio nudo: lo spettatore non se ne rende conto perché è pervaso e quindi intrappolato nel suo groviglio. Come chi non riesce a svegliarsi da un sogno (During Sleep, 2002) e come il ricordo della pelle dai vestiti lavati (After That, 1999). Ciò che viene catturato è la soglia in cui l’opera diventa esperienza.

Il viaggio biografico dell’artista, dal Giappone a Berlino, è anche un percorso di identità. Le origini nipponiche riaffiorano talvolta (My Cousin’s Face, 1998), mentre la residenza tedesca la mette a confronto con la nozione di appartenenza e di spaesamento (Where to Go – What to Exist, 2010; Accumulation: Searching for the Destination, 2014-2025). Shiota riflette sul viaggio come condizione esistenziale più che come movimento fisico. Ciò che conta non è la meta, ma il processo di attraversamento: il viaggio può portare a risvolti inaspettati, ma tremendamente necessari.
Uno dei momenti cruciali nella vita di Shiota è la malattia che l’ha costretta a confrontarsi con la propria vulnerabilità, “…facevo del mio meglio per vivere e sopravvivere”. Da questa esperienza una consapevolezza è certa: il corpo si frammenta, l’anima si disperde, l’universo perde una particella. Ogni individuo è parte di una composizione infinita di individui che si coagulano l’uno nell’altro. La “terza pelle” a cui fa riferimento l’artista – lo spazio che abitiamo – diventa così un’estensione del corpo e dell’anima. È la finestra da cui guardiamo il mondo e in cui inevitabilmente siamo anche guardati. Siamo dentro e fuori contemporaneamente, noi e gli altri nello stesso intreccio.


