Artista e docente all’Accademia di Belle Arti di Brera, Leonida De Filippi lavora da anni sulla soglia tra immagine, simbolo, riferimenti mediali e politici, tecnologia. La sua ricerca nasce infatti dalla pittura, ma si estende alla serigrafia, al tessuto, alla scultura e alle tecniche extramediali, in un continuo attraversamento di linguaggi. Pittore “mediale” fin da tempi non sospetti (ben prima dell’avvento dei social media), De Filippi aveva infatti utilizzato una tecnica molto riconoscibile, quella del “retino digitale” riportato però nel linguaggio pittorico, per la realizzazione di grandi ritratti, paesaggi o scene tratte dalla cronaca, soprattutto di guerra. Dal 2016, però, ha cominciato a concentrarsi sul simbolo del cerchio, riducendo l’iconografia all’essenziale e approdando così all’astrazione, con una cifra stilistica facilmente replicabile e fortemente riconoscibile. Quel cerchio, che col tempo è diventato anche un oggetto viaggiante, un simbolo portato tra le persone, nei luoghi più distanti. Nel 2018, durante un viaggio in Cina, a Wuhan, De Filippi porta con sé una delle sue tele circolari e inizia a far posare davanti al quadro – in strada, nelle piazze, nei campus – passanti, studenti, lavoratori. Le persone si collocano con la testa al centro del dipinto, come in un rituale collettivo. Il gesto è semplice ma potente: un invito alla concentrazione su di sé, ma anche all’apertura verso l’altro. Quel cerchio si trasforma così in una sorta di “esperanto visivo”, un linguaggio neutro e universale capace di superare le barriere linguistiche e culturali. Da Wuhan, l’esperimento si è poi allargato ad altri luoghi di confine: dalla Grecia al Marocco, fino a tendopoli rom, carceri, scuole nomadi. “Volevo che il mio cerchio potesse parlare a chiunque, ovunque”, dice De Filippi. “Che fosse un simbolo che unisce, non che divide”.

Nel 2008, insieme alla sua compagna Paola Ferrario, De Filippi fonda The Sense of Art: non solo un’associazione umanitaria no profit, ma un vero e proprio progetto artistico attivo, un dispositivo collettivo che unisce azione estetica e responsabilità civile. L’associazione nasce con l’obiettivo di portare l’arte fuori dai circuiti istituzionali e nei luoghi dove è più urgente: carceri, tendopoli, scuole di villaggi remoti, zone di crisi. Il metodo è diretto, senza mediazioni accademiche o curatoriali, e si fonda sulla convinzione che l’arte possa essere uno strumento di trasformazione concreta. Non decorazione, ma intervento; non intrattenimento, ma consapevolezza. The Sense of Art è arte che entra nel mondo, lo attraversa e interviene su di esso, costruendo relazioni, portando materiali, organizzando laboratori, lasciando segni visivi e simbolici in contesti difficili. De Filippi crede ancora, come ci spiega in questa intervista, all’arte come pratica sociale e politica, da portare tra la gente. In questi anni l’artista ha infatti realizzato progetti con rifugiati, carcerati, comunità nomadi e scuole nel deserto, portando l’arte laddove solitamente non arriva.In occasione della mostra Why War, all’Oratorio dei Disciplinanti di Finalborgo, lo abbiamo incontrato per una conversazione a tutto campo sulla guerra, l’arte, la povertà, la tecnologia, l’immagine mediale, l’impegno e la bellezza possibile di un gesto che non è solo estetica o decorazione, ma attenzione, cura, costruzione di senso e presa di responsabilità.

Leonida, partiamo dal titolo della mostra: Why War?, Perché la guerra? Soprattutto: perché questo titolo?
Sì, Why War? è una domanda che mi porto dietro da sempre. Le due guerre recenti che si sono sommate in questi ultimi anni sono solo l’ennesimo detonatore. Siamo immersi in un clima di tensione internazionale costante. E le immagini di guerra, sui social, nei media, scompaiono con una velocità spaventosa: scorri, ti abitui, dimentichi. Il mio ruolo, come artista, è invece quello di fissare delle immagini, delle icone che restino.
Quindi non solo attualità, ma anche una riflessione sulla memoria visiva, e sul senso stesso del fare arte…
Esatto. Fissare l’immagine, renderla emblematica, ma anche chiedersi perché si fa arte, oggi. Che senso ha farla, per chi, e con quale scopo. Io credo che l’arte debba sempre porsi queste domande. Non mi interessa un’estetica fine a sé stessa, né la decorazione o la provocazione. Mi interessa creare immagini che possano aprire un dialogo, che restino, che feriscano, che curino. Perché oggi, nell’epoca della distrazione permanente, anche un’immagine ha una responsabilità. E io credo che il compito dell’artista sia proprio questo: assumersi questa responsabilità, tornando a ragionare sul senso stesso del nostro essere artisti in un mondo sempre pià dilaniato da guerre, povertà, ingiustizie sociali…

E cosa significa dunque per te, oggi, “fare arte”?
Significa agire. Io metto sullo stesso piano l’azione benefica, l’aiuto concreto, il volontariato, e quella che potremmo chiamare – anche se sembra una parola grossa – azione artistica. Non c’è niente di più concettuale, e allo stesso tempo di più concreto, che aiutare qualcuno. Io insegno a Brera, ma nel 2008 con Paola abbiamo fondato The Sense of Art proprio per cercare un nuovo senso dell’arte: più puro, meno legato al mercato, e più vicino all’idea di un gesto che genera benessere collettivo. L’arte non deve essere un cliché, non deve fermarsi alla superficie: deve sporcarsi le mani, andare nei luoghi dove manca tutto, e lì diventare veramente necessaria.
è molto ampia: settanta opere in tre grandi sale. Cosa hai deciso di mostrare del tuo lavoro, e secondo quali ?
Una selezione ragionata. Ci sono tanti arazzi che non esponevo da anni e che ho riscoperto con piacere. Alcuni sembrano davvero schermi video tessili, con immagini di guerra, occhi di rifugiati, manifestazioni. E poi i fotoarazzi, dove cucio fotografie di guerra su tessuto, ritagliando ciò che non mi interessa. È una tecnica mista, tra ricamo, strappo, disegno.

Nel tuo lavoro ritorna spesso il simbolo del cerchio, del mirino. Che senso assume per te?
Il cerchio è un segno che arriva da lontano. Già in Cina, nel 2018, stavo lavorando su queste forme circolari. Sono mirini, bersagli, oggi ahimè assolutamente attuali, visto che la guerra, pur mantendendo il suo carico di dramma, di violenza e di orrore, sembra assumere ai nostri occhi un aspetto astratto, con questi droni spediti da migliaia di chilometri a puntare appunto un bersaglio, quasi come in una spaventora fiction o in un videogioco distopico… ma i miei cerchiu possono essere letti anche come simboli di concentrazione interiore. C’è sempre questa ambivalenza nei miei simboli: il cerchio è infatti sintesi di nuove guerre e nuove tecnologie di morte o di controllo, ma anche ricerca di un punto di concentrazione. È un simbolo che contiene insieme la minaccia e la salvezza, la possibilità del colpo e quella della meditazione. Nei miei lavori più astratti, il cerchio nasce dalla sintesi dei retini tipografici che usavo per decostruire l’immagine mediatica: da quell’idea di pixel, di scomposizione, ho cercato una forma che fosse allo stesso tempo semplice e carica di senso. Il cerchio, così, è diventato una sorta di interfaccia: può essere un mirino, un bersaglio, un occhio, una pupilla. Ma anche una porta, un varco, un invito al raccoglimento interiore.

Ed è per questo che hai deciso di portarlo tra le persone, nei luoghi più lontani, come una sorta di “arte sociale” di tipo relazionale?
Sì. Perché è un’immagine che non ha bisogno di spiegazioni. È diretta, leggibile. È come un’icona primitiva. Quando la porto tra la gente – in strada, nei villaggi, nei campi profughi – diventa uno strumento di relazione, uno spazio da condividere. Chi si mette al centro del cerchio accetta di entrare in una zona di concentrazione e allo stesso tempo di esposizione. È come dire: ci sono, esisto, ma sono anche connesso a qualcosa di più grande. È un modo per restituire centralità alle persone, anche nei contesti più marginali.
Da molti anni tu realizzi anche sculture in legno, in metallo o in altri materiali. Che ruolo ha per te questa parte della tua pratica artistica, e che cosa rappresentano queste forme?
Per me la scultura è un altro modo per rendere tangibile un’immagine, per darle corpo. Ho sempre lavorato anche con la materia e con la scultura, ma in questi ultimi anni ho voluto che la forma avesse una presenza più forte, fisica, nello spazio. Alcune delle mie sculture sono realizzate a partire da tronchi caduti nei boschi liguri: grossi castagni, radici, rami spezzati che raccolgo, lavoro e dipingo. Altre invece sono realizzate in legno ma paiono metalliche, e rappresentano come degli animali artificiali: cani-robot, droni zoomorfi. Sono come sentinelle post-umane, creature ibride, a metà tra natura e macchina, tra tecnologia e residuo organico. Una di quelle che ho realizzato recentemente, per esempio, ricorda una specie di cane corazzato, quasi come una creatura mimetica, ma in realtà molto fragile. Un’altra ha la forma di un oggetto aerodinamico, come un missile o un sottomarino, ma fatto di materiale povero, quasi a segnalare la distanza tra la minaccia e il fallimento. Mi interessa questo scarto tra l’idea di potenza e la sua messa in discussione. Queste sculture raccontano la guerra futura, ma anche il desiderio di disinnescarla. Sono oggetti in tensione, che sembrano in procinto di muoversi, ma restano lì, silenziosi, testimoni immobili di qualcosa che non deve accadere.

Un’immaginario quasi fantascientifico…
Sì, che purtroppo ormai è realtà. Ci sono già stati scontri tra droni militari senza piloti umani. È iniziata l’era della guerra autonoma. Questo passaggio è terribile, perché elimina anche l’ultimo legame umano, persino in una cosa orribile come è l’atto di uccidere.
In tutto questo, che ruolo ha The Sense of Art?
È l’altra parte del mio lavoro. Non solo artistica, ma umana. Vado in Africa, in moto, nei villaggi remoti, senza acqua e senza connessione, a portare beni, computer, strumenti. Ma anche arte. Perché l’arte è un gesto che può curare.

Una volta hai detto che aiutare è la più grande performance possibile…
Lo penso davvero. Quando salvi un migrante, quando dai la mano a chi sta per affondare, quello è un gesto estetico, concettuale, radicale, oltre naturalmente che umano. Perché aiutare qualcuno è un gesto che si riverbera nella nostra coscienza collettiva, e in questo senso vale più di mille happening.
E ora, quali sono i tuoi prossimi progetti?
Riparto a ottobre: Marocco, West Sahara, Mauritania, Senegal. Si va in moto, si incontrano villaggi, si fa il punto, si torna. E intanto si pensa, si riflette, si prende appunti. E ci si prepara per portare un’altra tornata di aiuti.
Un’arte che si espone, si sporca le mani, e non si accontenta di rappresentare…
Esatto. Questa è l’azione artistica che mi interessa oggi. Un’arte che agisce, che interroga. E che non si rassegna all’orrore oggi dominante della legge del più forte, nel lavoro, nell’economia, come nella politica estera.




bellissimo! arte e umanita al loro meglio! complimenti all’autore e anche a chi ha scritto l’articolo!