Non sempre l’essenza di un artista si rivela nel gesto che lo ha reso celebre. A volte, è nelle pieghe meno visibili del suo lavoro, nei materiali più umili, nei processi apparentemente marginali, che si nasconde la parte più autentica. Così accade con Lucio Fontana, il cui nome evoca immediatamente l’iconico taglio nella tela, ma che prima di quel segno definitivo ha scavato, inciso, modellato. Ha lavorato con la materia più antica, la creta, lasciando che fosse la forma — imperfetta, viva, mutevole — a guidare il pensiero.
Dall’11 ottobre fino al 26 marzo 2026, la Collezione Peggy Guggenheim ospita Mani-Fattura: le ceramiche di Lucio Fontana, una mostra che riunisce circa settanta opere scultoree e racconta, con taglio cronologico e tematico, un artista che dialoga con la terra e il fuoco. Curata da Sharon Hecker, l’esposizione ricostruisce un percorso espressivo iniziato ben prima degli anni Cinquanta, rivelando quanto la ceramica non sia stata una parentesi, ma un linguaggio fondativo per comprendere l’intera opera di Fontana.

In un momento storico di riscoperte artistiche – anche dei materiali come la ceramica – l’esposizione sceglie di rileggere un Fontana sotto una nuova lente più intima, espressiva, privata, ma non per questo meno importante. Al contrario, la scultura raccoglie molteplici espressioni che hanno contribuito al raggiungimento di quel taglio che tanto ha reso celebre Lucio Fontana. Mani-Fattura è perciò un’indagine, una scoperta della persona accanto al personaggio. Se “canonicamente” nella storia dell’arte si colloca come punto fisso il taglio, che diventa prevalente su altre modalità espressive, questa esposizione mostra un’altra faccia dell’artista: parla in modo più raccolto, sussurra l’evoluzione di una forma che ha un inizio, molteplici sviluppi e una fine che riporta all’origine. Una circolarità che si riflette anche nella struttura della mostra.
Questa storia si apre con il cortometraggio “Le ceramiche di Lucio Fontana a Milano” realizzato da Felipe Sanguinetti che integra tutte quelle opere non trasportabili a Venezia. Nella prima sala sono esposte le opere in terracotta dipinta realizzate tra gli anni venti e trenta. Fatta eccezione per la Ballerina di Charleston (1926) realizzata in gesso ed erroneamente definita dallo stesso Lucio Fontana come sua prima ceramica. Segue una serie di lavori in terracotta invetriata di animali (coccodrilli, cavalli, farfalle, granchio) e conchiglie. Poi, tra il 1938 e il 1939 Medusa e Torso italico. Arriviamo agli anni Quaranta con una materia sempre meno definita, terrecotte con contorni sfumati, impastati. Successivamente troviamo i ritratti dei suoi affetti, Teresita e Milena Milani – unica donna ad aver firmato il Manifesto dello Spazialismo nel 1947. Segue una serie di crocifissioni, una deposizione e una sala dedicata a Concetti spaziali.

Mani-Fattura esprime appieno l’intimità che scaturisce dall’atto di modellare l’argilla: una risposta a un trauma, l’elaborazione di un’emozione, la resa di una forma che risulta in modo sempre differente. La produzione scultorea di Fontana è proteiforme, come la definisce la curatrice Sharon Hecker, e l’esposizione riesce allora nella costruzione di una narrazione attraverso la scansione cronologica e tematica, includendo anche immagini e articoli di giornale, necessari a contestualizzare un processo che avviene nella Storia mondiale ma anche nella storia personale di Fontana. Nel tatto e nell’espressione viscerale propri dell’atto del modellare, la mostra sembra sovrapporre un privato sentire a un racconto universale, in una cronaca che pone l’accento sull’evoluzione di tecniche, materiali e processi.
Quello in mostra è il linguaggio fisico della ceramica. Un fare con le mani, un piacere tattile reso in modo quasi teatrale. La favola dell’evoluzione scultorea di Lucio Fontana si conclude in modo circolare, con un ritorno all’origine – del sé e della scultura. Così, Mani-Fattura, nella presentazione della manifestazione più intima dell’artista, chiude un cerchio ritornando a forme essenziali e archetipi della nascita. “Dovevi modellare e, nel modellato, davi tutta la vita, davi tutta la forma”.



