Un silenzio incolmabile permea la stanza. Le pareti, ornate da fastose decorazioni settecentesche, sembrano trattenere un respiro antico, quasi complice della scena. I tendaggi scendono come sipari opulenti e un pianoforte, ombroso e severo, custodisce due fotografie sbiadite. Il corpo di Maria Callas sfugge al nostro sguardo. La cinepresa si ritrae. Non osa infrangere la sacralità del momento: sa che anche in morte Maria è un monumento alla vita. Una presenza che riempie il vuoto.
Questo è l’incipit del nuovo ritratto di Pablo Larraín, un regista che si muove come un archeologo delle anime perdute. Con la sua lente, ha scavato nel labirinto di figure femminili intrappolate tra icona e carne, tra mito e sofferenza. Dopo Jackie Kennedy e Diana Spencer, il suo sguardo si posa ora su Maria Callas, incarnata da Angelina Jolie. Un affresco malinconico che cattura un frammento della vita della Divina: i suoi ultimi giorni.

A Parigi, in un appartamento che somiglia più a un mausoleo che a una dimora, Maria vive circondata da una teatralità ormai spoglia. Il suo rifugio è popolato da poche figure fedeli: Ferruccio, un maggiordomo che sembra un’ombra gentile, e Bruna, una cuoca che è custode silenziosa della fragilità della sua signora. Qui Maria canta, ma non più per il mondo. Canta per sé stessa, per un’arte che si è trasformata in un’ossessione intima. La voce, un tempo così viva da incendiare i palcoscenici, si infrange in un modo che la Divina non può accettare.
Costretta dalla madre a cantare, annientata dall’amore per Aristotele Onassis, Maria è una donna che ha sempre dovuto sacrificare pezzi di sé. Ora, in questo esilio parigino, tenta di recuperare frammenti della sua identità. Ma le ferite sono profonde. La sua insonnia è popolata da incubi, in cui Onassis torna a tormentarla come uno spettro irrisolto.
Maria brucia i costumi della sua gloria passata, quasi a voler cancellare ogni traccia della diva che il mondo ha conosciuto. Non ha più bisogno di quelle maschere, di quei simboli. Resta solo una donna, fragile e ostinata, che si aggrappa a un’arte che non può più vivere come un tempo. Anche quando siede nei caffè parigini, cercando invano uno sguardo che riconosca in lei la leggenda, non trova conforto. Le lodi sono scarse, le critiche feroci.

Angelina Jolie, nel dare vita a Maria, non si dissolve completamente nel personaggio. La sua interpretazione non si allontana mai da sé, è elegante, affascinante, ma forse troppo controllata, troppo distante dalle crepe profonde che hanno definito la Callas. Il film stesso sembra muoversi con timore reverenziale, come se la grandezza del mito fosse troppo vasta per essere contenuta in un racconto cinematografico.
Una donna che ha vissuto la musica come un atto di resistenza, che ha trovato nella tragedia lirica il suo linguaggio. “La felicità non ha mai prodotto una bella melodia” dice, quasi a giustificare quella dedizione che l’ha consumata. Negli ultimi giorni della sua vita, Maria si ritira nel suo teatro interiore, un luogo fatto di visioni, memorie e note spezzate. Parigi diventa un palcoscenico vuoto, dove l’unica opera in scena è la sua stessa esistenza. In questa solitudine scelta e subita, circondata da statue mute e marmi gelidi, Maria Callas si prepara a cantare il suo ultimo atto: un’aria senza pubblico, senza applausi, ma profondamente, irriducibilmente sua.