Vincitore della Menzione Speciale del VAR Digital Art Award 2025 con l’opera What I think it becomes, Matteo Mauro consolida la sua ricerca come una delle più originali e coerenti nell’ambito dell’arte generativa contemporanea.
Artista siciliano di base a Londra, Mauro intreccia incisione classica, algoritmi generativi e sperimentazioni blockchain, restituendo all’ornamento il suo valore di linguaggio universale: una scrittura del mondo in continua trasformazione.
L’opera menzionata rappresenta uno dei vertici concettuali e formali della serie Micromegalic Inscriptions, avviata nel 2016, in cui l’artista elabora simulazioni morfogenetiche per tradurre il movimento del pixel in linguaggio poetico. In queste composizioni, le linee digitali seguono regole ispirate all’incisione tradizionale e all’ornamento barocco e rococò, trasformando il dettaglio in architettura visiva e il codice in gesto. Il pixel, elemento minimo e pulsante, diventa il luogo in cui la forma si espande, incarnando un clinamen contemporaneo: una deviazione creativa che genera possibilità e senso.
Attraverso un equilibrio di ordine e caos, What I think it becomes riflette l’idea che il pensiero non sia soltanto interpretazione, ma azione formativa, energia che plasma l’immagine e la realtà.

Matteo, il tuo lavoro presentato al VAR Digital Art Award si inserisce nel solco delle tue “iscrizioni micromegaliche”, una serie che ormai rappresenta un punto cardine del tuo percorso. Ci racconti da dove nasce e come si è evoluta?
Questa serie di opere appartiene al gruppo delle Iscrizioni che ho iniziato a sviluppare nel 2016. Le definisco micromegaliche perché uniscono due scale opposte: il microscopico e il macroscopico. Ogni opera nasce da un processo di generazione di linee che si ripetono in modo quasi incalcolabile, producendo forme che ricordano superfici pittoriche, ma costruite digitalmente.
Nel tempo ho imparato a controllare sempre di più questo processo: la macchina, da sola, non sa se sta creando un errore o un’immagine, un vuoto o un segno. È l’artista a restare il giudice e il regista di ciò che accade, modulando l’idea e il risultato. La tecnologia diventa così un mezzo, ma il pensiero rimane umano.
Negli ultimi anni la tua ricerca ha preso una nuova direzione, con le “iscrizioni grezze” o “Evolving Inscriptions”. Cosa rappresenta questo passaggio?
Dal 2024 ho sentito l’esigenza di chiudere il ciclo delle micromegaliche e aprirne uno nuovo, più essenziale. Le Iscrizioni grezze segnano per me una fase di purificazione, personale e artistica.
Dopo anni di stratificazione, di complessità visiva e concettuale, ho sentito la necessità di tornare al segno originario. Le nuove iscrizioni non nascondono più la linea sotto l’accumulo, ma la celebrano. Voglio che emerga la traccia ancestrale, quel gesto primario che accomuna tutti gli esseri umani: il desiderio di lasciare un’impronta.

In questo processo la tecnologia resta presente, ma sembra esserci un cambio di prospettiva: meno attenzione al “come” e più al “perché”.
Esatto. Nei primi anni ero molto concentrato sugli aspetti tecnici, anche per deformazione mentale: ho sempre avuto una sensibilità quasi scientifica e matematica. Poi, col tempo, mi sono reso conto che non bastava capire come fare un’opera; dovevo capire perché la stavo facendo.
Ho smesso di cercare il nuovo per il gusto dell’innovazione e ho cominciato a interrogarmi sul senso di quel gesto. Ho capito che ciò che faccio è, in fondo, un istinto umano universale: tracciare, lasciare memoria. È lo stesso impulso che vediamo nei bambini quando, per la prima volta, scoprono di poter segnare una superficie. Io non faccio altro che proseguire quel gesto con gli strumenti e la consapevolezza del mio tempo.
Quindi la tecnologia, nel tuo lavoro, diventa uno strumento per prolungare un gesto originario.
Viviamo in una società sempre più rapida, dove il manufatto rischia di diventare un’anomalia. Le tecnologie mi permettono di continuare a lavorare col pensiero, producendo immagini che rispondono alle esigenze del contemporaneo, ma che restano profondamente umane.
Certo, oggi si parla tanto di arte digitale o generativa, ma io credo che le etichette servano più al mercato che all’arte. L’arte esiste indipendentemente dal mezzo. L’importante è che l’opera conservi un’anima. E come ho detto ironicamente ricevendo la menzione, “l’arte è inutile, ma senza arte la vita sarebbe vuota”.

Hai spesso sottolineato l’importanza del controllo dell’artista rispetto alla macchina. Come si configura oggi questo dialogo?
La macchina non giudica, non distingue tra pieno e vuoto, tra immagine e assenza. È uno strumento cieco. L’artista invece interpreta, corregge, decide. Il mio ruolo è proprio quello di mantenere viva questa tensione: non lasciarmi dominare dal processo generativo, ma guidarlo.
È in questo dialogo che nasce l’opera. Il digitale, da solo, non crea nulla di autentico; diventa arte solo quando incontra la coscienza dell’artista.
Nel tuo lavoro io leggo un’eco di Lucio Fontana, ma anche dei grandi indagatori dello spazio e della linea, gli “spazialisti”. Ti riconosci in questa genealogia?
Assolutamente sì. Fontana è un riferimento inevitabile: la sua intuizione dell’infinito spaziale ha reso ogni opera potenzialmente “valida”, perché nasce da un’idea assoluta. Quando lavori su un concetto vero, ogni gesto è necessario.
Anch’io mi muovo su quella soglia: ogni artista deve confrontarsi con la linea, che è l’origine di tutto. Il punto, in fondo, è solo un’idea; la linea, invece, ha corpo, connette, genera spazio. È il primo gesto che dà forma al mondo. Io non la nascondo, la celebro.
Il tuo lavoro ha una forte dimensione teorica e, per questo motivo, stai anche lavorando a una pubblicazione, giusto?
Sì, sto lavorando a due progetti editoriali con il critico Flaminio Gualdoni: due monografie che raccolgono rispettivamente le opere pittoriche (2016–2024) e quelle scultoree (2020–2025). Saranno volumi molto ampi, quasi archeologici, perché ripercorrono la mia ricerca come un archivio dell’esperienza.
Parallelamente sto scrivendo un libro teorico, Raw Inscriptions, che esplora il gesto della linea da un punto di vista antropologico e filosofico. Mi interessa capire perché l’uomo, da sempre, sente la necessità di tracciare segni. Studio autori come l’antropologo Tim Ingold, che ha scritto testi fondamentali sul significato della linea, e torno spesso ai pensatori platonici per la loro idea di una verità assoluta nascosta nel mondo delle idee. Il mio percorso è una ricerca epistemologica: cerco l’episteme delle mie iscrizioni.
Quali sono i tuoi riferimenti visivi o culturali più personali?
Prima di dedicarmi all’arte visiva, ho studiato musica, soprattutto chitarra elettrica, e credo che quella formazione abbia influenzato il mio modo di percepire ritmo e struttura. La musica elettronica, in particolare, ha affinato la mia sensibilità per la ripetizione e la variazione.
Sul piano visivo, mi affascinano i movimenti che hanno saputo conciliare spiritualità e forma, da Kandinskij a Mondrian, ma guardo anche al pensiero contemporaneo, ai filosofi e agli scienziati che provano ancora a immaginare futuri possibili.
Mi considero, in fondo, un utopista per necessità: chi non crede nell’utopia non può creare nulla di nuovo. Tutto ciò che oggi esiste, un tempo era solo l’idea di un visionario.
Quali sono stati i premi e i riconoscimenti più importanti che hai ricevuto in questi anni e quali i prossimi progetti?
Negli ultimi anni ho avuto la fortuna di ricevere diversi premi, tra cui il Master of Arts – European Excellence of Arts nel 2018, e altri riconoscimenti legati proprio all’innovazione del linguaggio visivo. In parallelo continuo a lavorare con la Galleria Prometeo di Ida Pisani, con cui collaboro da tre anni, e parteciperò anche quest’anno ad Artissima e ad Arte Fiera Bologna, dove presenteremo nuove opere su tela e sculture in marmo.
Si tratta di una fase di rallentamento e concentrazione: il gesto torna a essere protagonista, anche nei materiali più tradizionali.


