Dalla Dolce attesa ai trattori fra le vigne. Max Casacci, torinese, classe 1963, fondatore dei Subsonica, chitarrista, compositore e produttore discografico, musicista poliedrico, sperimentatore sonoro, continua a esplorare e giocare tra registrazioni e manipolazioni delle infinite fonti sonore che ci circondano, senza l’ausilio di strumenti musicali. Dopo la speciale collaborazione con il regista Premio Oscar Paolo Sorrentino che l’ha vouto per creare il suono della Dolce attesa, il progetto installazione per il Salone del Mobile 2025, Max Casacci aggiunge una nuova playlist di suoni: quelli del vino pregiato di Franciacorta e della sua lavorazione di cui distilla l’essenza sonora. Si chiama Through the Grapevine, in Franciacorta (Earthphonia III) il nuovo album, uscito ai primi di aprile, tra il rombo di un trattore che diventa linea di basso, il brontolio della cisterna, stappi di bottiglie usati come percussioni, cisterne di vino che mutano in tamburi taglienti, il suono delle bollicine nel bicchiere e quello ovattato dei grappoli d’uva che cadono al suolo. “L’idea è nata durante il Festival della Franciacorta, tra le mura delle Cantine Bersi Serlini. Ero stato invitato per una sonorizzazione live da Chiara Bersi Serlini (architetto e designer cha ha raccolto l’eredità di famiglia nella produzione di vini pregiati nella Franciacorta, ndr) che ha lavorato nel mondo dell’arte contemporanea a Londra collaborando con artisti visionari come Aphex Twin e Bill Viola, Chris Cunningham, una persona che ama la bellezza e non pone limiti alla sperimentazione. Ed è stato subito evidente che volevamo entrambi creare qualcosa di unico e vibrante”, racconta Casacci con cui abbiamo fatto una chiacchierata sui suoi incredibili e molteplici progetti.
Ecco il risultato di questa chiacchierata.

Le tre tracce dell’EP sono Cantine, Trattore, Cisterne, Cantine Ci racconti ciascun brano?
Trattore nasce a metà tra una celebrazione futurista della vendemmia e un baccanale dionisiaco contemporaneo. Il rumore dei grappoli che cadono si trasforma in una cassa in quattro che invita alla festa. Il suono del mosto nella pressa offre note e accordi; il rombo di un trattore regala le due linee di basso. Cantine è il brano che più direttamente racconta ciò che non si vede. Quando entri in una cantina c’è un’atmosfera, certo, ma ciò che accade lì — le trasformazioni lente e silenziose che rendono il vino “buono” — è affascinante. Ho restituito questa dimensione sospesa, misteriosa e delicata con suoni cristallini. Cisterne è forse il brano più “meccanico”, perché racconta la fase della lavorazione e imbottigliamento. Ero rimasto colpito dalle grandi cisterne, con la loro imponente metallica eleganza: per fortuna erano vuote e ho potuto suonarle. Davano note lunghe, riverberate. Come una fila di percussioni marziali e ordinate, sono state percosse e fatte risuonare come tamburi metallici. Le ho usate insieme ai suoni dei calici, che offrono un contrappunto più elegante.
Con Paolo Sorrentino come è andata invece?
Mi ha contatato quando mi trovavo in Marocco con i Subsonica e il primo istinto è stato di saltare su un dromedario per tornare in Italia. Poi ci siamo incontrati e mi ha parlato del progetto in cui rivisita il sentimento dell’attesa. Non non voleva una colonna sonora, ma un “commento sonoro” che trasformasse il tempo in una esperienza immersiva, che stordisce e ipnotizza, in cui lasciarsi trasportare, una terra di mezzo dove tutto è ancora possibile, dove tutto può – o potrebbe – essere più dolce. Ci siamo trovati subito.
Qual è il suono della dolce attesa?
Battiti, fruscii, voci d’acqua, suoni delle foreste, respiri del vento, il canto di una megattera (una balenottera) e trasparenze di cristallo. Un battito sommerso, pulsante. È una composizione che consola senza addormentare, che ipnotizza e stordisce. E che può trasformarsi in apertura, abbandono. È un suono che vibra, si dilata e si contrae, proprio come il battito del cuore. Mi è piaciuta l’idea di usare una megattera sia per la creazione di un drone di base, che come evanescente linea melodica. Il mare, il vento, sono suoni capaci di essere molto rassicuranti, adatti a bilanciare la presenza del battito cardiaco che invece è un elemento ambivalente. Può infatti essere percepito come ritmo naturale ma anche come elemento ansiogeno. In questo senso ho fatto anche molta attenzione al dosaggio delle basse frequenze, che devono poter “cullare” l’ascoltatore senza mai superare un limite.
Sei diventato in questi anni un “acchiappasuoni”, capace di estrarre musica dalla natura, dall’ acqua, dai rumori della cità, dal vino. Mi ricordi Philp Winte, il protagonista del Lisbon Story di Wim Wenders, che riceve dall’amico regista Friedrich Monroe una cartolina con un invito a sonorizzare il film che sta girando su Lisbona.
Parli di un film splendido. Quando Friedrich non compare, Philip decide di mettersi al lavoro. Guarda le riprese dell’amico e inizia a cercarne i suoni. Armato di microfono, coi piccioni appoggiati sull’attrezzatura e le cuffie come corona, va a cogliere le sonorità da montare sulle scene, tra i vicoli, e coglie il suono della città dallo sferragliare dei tram alle urla del mercato. Lisbona viene raccontata da Wenders proprio attraverso la sua luce, gli odori e i rumori e non attraverso una trama. Si manifesta Pessoa: “ascolto senza guardare, così vedo”. La frase, con la sua forza evocativa, sottolinea come l’ascolto attento possa darci una visione più completa e profonda della realtà, diversa da quella che si ottiene con la semplice osservazione visiva. Esistono suoni che, nella vita di tutti i nostri giorni, diamo per scontati. Ed è un vero peccato. Quello che mi piace quando vado a catturare i suoni, è uscire dalla mia autocentratura ed è una sensazione che mi pacifica con il mondo. Mi piace pensare a questa musica di suoni e rumori come a una sorta di esperanto, una lingua comune e accessibile a tutti, che può essere spiegata in poche parole e non lascia fuori nessuno.
I suoni delle città diventano protagonisti dell’album “Urban Groovescapes”
Credo che negli ultimi decenni, la musica in relazione allo spazio urbano si sia appiattita su una narrazione legata alla desolazione, al degrado, all’alienazione dei rumori e a una certa monocromia. Ho pensato di provare a ribaltare le carte in tavola inseguendo i rumori che ho catturato e che mi hanno comunicato qualcosa di diverso. Certo, è giusto e fondamentale lanciare allarmi, ma è anche importante, magari in una chiave un po’ naïf, mettere insieme cose che abbiano ancora un sentimento di stupore e di gioco. Ghost rail notes ricavate dal rovesciamento di un camion dei rifiuti e di un escavatore per lavori stradali. Incedibile no?Cogliere la bellezza di un rumore nella routine cittadina e convertirla in musica da ballare. Può essere un primo esercizio per immaginare di trasformare la quotidianità dello spazio urbano in un momento di danza e di gioia. Perché le città incominciano a cambiare solo dopo che iniziamo a immaginarle diverse. E ritego che il ruolo di ogni espressione artistica, musica inclusa, sia propro quello quello di stimolare l’immaginazione collettiva.
Come nasce questa passione?
Mio padre Ferruccio ha passato la vita a costruire spettacolo, che fosse cinema, teatro, radio, musica. Ha composto canzoni, testi teatrali e radiofonici. Oltre ad essere stato produttore di documentari e doppiatore di film e serie televisive. A fine anni Sessanta crea il C.K. Studio in via Po 38, dove fa spazio a una piccola sala di registrazione. A 18 anni il primo lavoro che mi ha affidato è stato quello di catalogare tutti i nastri con i suoni registrati, dai rumori degli aerei ai versi degli animali, le campane, le sirene. Passavo intere giornate a catalogare, forse il ronzio di quella passione è cominciato lì.
Come ti approcci a un nuovo progetto sonoro?
Ogni volta che mi metto a lavorare su questi suoni — ambienti, rumori, luoghi — sento una vertigine. Non c’è niente di prestabilito. Non so mai da dove partire, non so cosa verrà fuori. Ma è proprio questo che mi affascina. Ogni brano è un’esperienza nuova, è come se i suoni mi portassero dove vogliono loro. Io non dico mai: “Prendo questo rumore e ci faccio una traccia”. No. Io ascolto, mi lascio guidare. E quando alla fine il brano arriva, posso dire di aver fatto un viaggio. Se stai sempre nella tua zona di comfort, fai un mestiere. Così, invece, faccio esperienze. Non avevo la minima idea che registrare le bolle o il remuage (tecnica che consiste nello scuotere e ruotare le bottiglie di spumante per raccogliere i sedimenti nel collo e facilitarne la rimozione, ndr) mi avrebbe portato a un disco.
Earthphonia, il tuo primo disco solista di otto tracce accompagnato da un libro scritto con il geologo Mario Tozzi è stato realizzato senza strumenti ma solo con suoni presi direttamente dalla natura
È qualcosa che sento molto forte. Bisogna porre al centro dell’attenzione tutto quello che possiamo fare in positivo per questi ecosistemi fragilissimi che regolano il nostro pianeta. Attraverso la musica si può cercare di aprire un canale diverso di comunicazione, puntando a fare dello stupore la chiave per comprenderli e amarli. La natura è musica e armonia. Si può avere un’idea di base, ma è la natura che decide quali suoni e in che tonalità offrire.
L’idea originale di far suonare la natura com’è nata?
Tutto ha inizio durante una vacanza sull’isola di Gozo vicino a Malta. Avevo sentito parlare di alcune pietre, utilizzate nell’antichità, capaci di generare suoni. Sono andato in località Ta’ Cenc, che dà il nome alla traccia, insieme a Luca Saini di Hati Suara, artista e regista visivo. Trovate le pietre, ci mettiamo a registrare – io con un registratore digitale e Luca con una videocamera. A sera, allineando i file sul computer, con sorpresa ci accorgiamo che queste pietre sono intonate tra di loro e in grado di generare intervalli armonici, come fossero elementi di un’orchestra preistorica. E da lì sono nati un brano musicale Ta’ Cenc con Hatisuara, esclusivamente con il suono di rocce calcaree e un video a testimonianza di quel luogo. Una casualità, un iniziale Big Bang, che ha messo in moto altre casualità correlate.
Per Earthphonia, ci avevi svelato che a stupirti ed ispirarti erano state anche le api.
Sin da bambino ho sempre avuto il terrore di essere punto dalle api e dalle vespe, non mi è mai successo, e non mi hanno mai molto rassicurato le storie relative allo shock anafilattico, quindi sono partito con la mia tuta da apicoltore e con dei farmaci cortisonici in tasca insieme a un assistente microfonista per registrare sulle colline della mia città, Torino. Abbiamo raggiunto le arnie di Mauro Pizzato, uno dei responsabili della produzione del miele di Slow Food. L’’apicoltore si era raccomandato di evitare i movimenti bruschi, per non irritare eccessivamente le api, già forse poco contente di essere invase nei loro spazi dai miei microfoni. Per questo motivo io e Ted, il microfonista, abbiamo incominciato a spostarci con una serie di movenze rallentate e sincronizzate, un po’ in stile teatro Kabuki giapponese. Nel brano che ho intitolato The Queen la protagonista è l’ape regina, ha una vocalità quasi da trombetta, che mi ha consentito di costruire una specie di oboe virtuale, mentre lo stile barocco descrive, in suo onore, la struttura “monarchica” dell’alveare. Con i ronzii delle api catturati vicino ai microfoni ho intonato una linea di basso, con quelli più diffusi dell’arnia ho ricavato clavicembali e ghironde.

Con il progetto Glasstress presentato alla Biennale d’arte di Venezia nel 2011, poi confluito in un progetto discografico, hai “rubato ” i rumori di lavorazione del vetro modellato in una fornace di Murano dai maestri vetrai del Berengo Studio. Ce lo descrivi?
È stato un lavoro di ricerca affascinante ed etereo: il potente forno che cuoce a circa 3.000 gradi a fare da basso, il tintinnio del cristallo a disegnare le melodie assieme a tutti gli altri rumori d’ambiente. E da lì in avanti ho proseguito: ho abbandonato l’implementazione degli strumenti, acustici e elettronici, per concentrarmi solo sul rumore, sul suono, riuscendo ad estrarre delle melodie e delle tessiture armoniche. E da lì è iniziato un viaggio straordinario in un mondo di suoni naturali.

Qual è il tuo rapporto con l’arte?
La musica rischia costantemente di stereotiparsi, si è impoverita in generale, in questo senso ogni decontestualizzazione, ogni riferimento o relazione con altre discipline rappresenta uno stimolo, una sfida, una tensione positiva. Like A Glass Angel è il primo singolo estratto dall’album ed è ispirato all’opera Inside Out che Pharrel Williams ha esposto proprio in occasione della mostra Glasstress del 2011: una statua raffigurante lo scheletro di un angelo di vetro.
Hai catturato anche suoni e rumori dell’acqua di Biella Watermemories (2019), un album nato in collaborazione con il celebre artista Michelangelo Pistoletto. Ce ne parli?
Aveva ascoltato Ta’ Cenc e mi ha chiesto di provare a sonorizzare il fiume di Biella, creando un percorso chiamato “Terme Cultura” all’interno della sua fondazione di Biella, Cittadellarte, che al centro ha proprio l’acqua. Gli dissi che ero in grado, ma in realtà all’inizio non avevo la più pallida idea di cosa fare. Ne è scaturito un percorso sonoro dalle sorgenti ai torrenti passando per antichi luoghi sacri fino ad arrivare alle pale che hanno trasformato la forza dell’acqua in energia per il lavoro.

Tra i suoni utilizzati ci sono anche quelli di due opere d’arte: il sibilo dei bollitori d’acqua dell’Orchestra di Stracci di Pistoletto e la barra d’aria in vetro di Giuseppe Pennone, un altro protagonista dell’arte povera
L’ho usata per inventare uno strumento inesistente ma molto evocativo, una specie di flauto, un ancia, una tromba che ho cercato di “indianizzare” per richiamare la sacralità del Gange (il fiume sacro per eccellenza) come a sottolineare che di fronte allo scorrere dell’acqua, ci troviamo comunque di fronte a qualcosa di sacro. E il concentrato sonoro che filtra attraverso l’opera di Giuseppe Penone: una barra d’aria puntata verso il torrente Cervo, all’esterno di Cittadellarte che affacciandosi verso il torrente Cervo ne cattura una componente armonica.
Tu personalmente quale suono ami di più?
Mi piacciono molto le gocce dell’acqua che da piccole diventano sempre più gravi, e ti spingono ipnoticamente a entrare nel flusso. Sei in una sorta di relazione con una memoria ancestrale, biologica, una cosa che abbiamo dentro.