Michele Ciacciofera alla Biennale di San Paolo: “Le mie opere? Ponti tra storia e natura, come pagine del grande libro del tempo cosmico”

Difficile – forse ontologicamente impossibile – definire il lavoro di Michele Ciacciofera. Cinquantasei anni, nato in Sardegna, cresciuto in Sicilia, da anni stabilmente a Parigi, oggi unico artista italiano invitato alla 36ª Biennale di San Paolo, appena inaugurata sotto il titolo programmatico Nem Todo Viandante Anda Estradas / Non tutti i viaggiatori camminano per le strade (sottotitolo Da Humanidade como Prática), Ciacciofera è al tempo stesso artista-geologo, aedo e cantore di ere geologiche dimenticate nell’infanzia del mondo, scopritore e ri-scopritore transoceanico e transgeologico di un inconscio collettivo che unisce in sé la memoria ancestrale delle piante, delle rocce, della terra stessa e della natura e quella degli uomini; antropologo dei riti e dei miti sepolti nella memoria profonda del tempo, sciamano delle forme e dei materiali, custode di memorie ancestrali e archeologo delle più svariate stratificazioni naturali e culturali, costruttore di altari laici e cartografo di geografie interiori. Il suo lavoro si configura come uno sterminato e vastissimo atlante warburghiano della storia, dei miti e della natura stessa, insieme visionario, poetico e al tempo stesso rigorosamente aderente al dato scientifico, dove pietre, fossili, uova, riti, segni arcaici e suoni elettronici si stratificano e si richiamano in un montaggio infinito, capace di tenere insieme arcaico e contemporaneo, materia e spirito, memoria e metamorfosi.

Non è un caso che, viaggiatore instancabile e attento esploratore di paesaggi estremi, Ciacciofera abbia attraversato deserti e mari, dall’Algeria all’Iran passando per gli Stati Uniti, alla ricerca – come ha scritto Christine Macel – “di un’esperienza in cui l’assoluto e lo spirituale si disegnino come un bisogno”, arrivando così a delineare la pratica di un’opera in eterno divenire, un lavoro fluido in cui tempo vissuto, manufatti, reperti, musiche, disegni e sculture si intersecano e si intrecciano indissolubilmente tra loro, un’opera-mondo che, come scrive sempre Christine Marcel, “non si lascia racchiudere in alcuno schema o modello”, ma “si sviluppa in maniera organica come il flusso della vita stessa, sorprendendo talvolta per le sue svolte e i suoi rilanci”. In questo orizzonte, i cerchi e le forme ovali, i corvi, gli animali marini, gli insetti che si combinano indistintamente, così come reperti, sassi, ceramiche, funghi, meteoriti, fascine, rami e manufatti, sembrano disporsi quasi autonomamente nel corpo del lavoro, dando vita a processi di costruzione e ricostruzione di forme archetipiche che sembrano esistere da sempre, scolpite nel cuore della natura e della storia del mondo, assumendo, come ha scritto Angelo Crespi, “la valenza di reliquie che in modo magico possono metterci in contatto con il corpo divino del Cosmo”: reliquie non inerti né museali, ma vive, capaci di intrecciare fossili e animali primordiali con manufatti e segni creati dall’artista, fino a ricomporsi nelle installazioni come in misteriose wunderkammer, dispositivi magico-sacrali e insieme conoscitivi, in grado di annullare la distanza tra il tempo profondo della natura e la fragilità del presente.

Michele Ciacciofera davanti alla sua opera a San Paolo. Foto Franck Hermann Ekra

A San Paolo, The Nest of the Eternal Present, il grande nido di terra cruda, paglia e piume da cui è costituito il suo lavoro, popolato da uova e custodito da quattro totem dalle teste d’uccello, non ha soltanto la grammatica di un’installazione, ma quella di un organismo che vibra di memorie geologiche, mitologie sufi e leggende amazzoniche, un luogo in cui le temporalità – dell’uomo, degli animali, delle specie estinte – si depositano l’una nell’altra. Ciacciofera parla infatti della necessità di ritrovare il principio di un’armonia universale, una riconciliazione con quel multinaturalismo che le popolazioni amazzoniche hanno sempre custodito come sapere vitale: la continuità psichica fra uomo, animale e vegetale, il riconoscimento che non esistono gerarchie ma un equilibrio fragile da difendere. “Trovo questo rapporto fondamentale”, ci dirà nell’intervista che segue: “soprattutto oggi, allorché la scienza e la tecnologia stanno acclarando la sequenza delle fasi evolutive proprio mentre l’uomo si interroga sul rischio della propria estinzione”. Ecco allora che il nido si fa mandala e agorà, dispositivo circolare e non gerarchico, spazio di accoglienza e protezione ma anche di rigenerazione collettiva, dove – come spiega ancora l’artista – “il canto registrato di trenta uccelli rielaborato elettronicamente crea un ambiente sonoro che inonda e avvolge la scultura, restituendo al pubblico la possibilità di un’esperienza condivisa di ascolto e di gioia, condizioni necessarie per ripensare il futuro”.

Michele Ciacciofera, L’Altare del Tempo e dell’Acqua Feconda, Fanano, Foto Roberto Leoni

Questa stessa logica di alleanza fra elementi arcaici e presenti governa anche un’altra opera di Ciacciofera, l’Altare del Tempo e dell’Acqua Feconda realizzata a Fanano, sull’Appennino modenese: un’installazione permanente inaugurata pochi mesi fa, otto monoliti in pietra arenaria, cifra dell’infinito, allineati lungo il torrente Leo come menhir contemporanei, non imposti al paesaggio ma destinati a mutare con esso, a farsi colonizzare da muschi e licheni, a riattivare ritualità ancestrali trasformandosi in altare laico della comunità. Qui l’acqua diventa anche metafora di democrazia planetaria – “senza acqua non c’è futuro”, ricordava Nelson Mandela – e insieme strumento di memoria, in un equilibrio che restituisce alla natura la sua parte di autorialità.

Così, guardando insieme San Paolo e Fanano, sembra comporsi un’unica trama rizomatica, un’opera-mondo che ramifica le sue forme e i suoi simboli come un albero genealogico: nidi, uova, fossili, menhir, pietre, acqua, suoni, comunità. Non reliquie isolate, ma capitoli di un atlante che tiene insieme archeologia e politica, mito e scienza, spiritualità e militanza ecologica. È in questa tensione che Ciacciofera ama definirsi, non a caso, “partigiano della natura”, raccogliendo l’eredità di Joseph Beuys e della sua Difesa della natura a Bolognano, e trasformandola in un compito vincolante: quello di un’arte che non arretra di fronte all’emergenza climatica, che non si rifugia nel simbolo ma prova a incarnarlo nella materia, nelle pietre e nei suoni, nei riti arcaici come nelle tecnologie più contemporanee.

Da qui muove l’intervista che segue: dal nido di San Paolo all’altare di Fanano, dalle uova ancestrali alle pietre arenarie, Ciacciofera ci racconta come la memoria e la metamorfosi possano ancora oggi farsi linguaggio condiviso, immaginario collettivo, promessa di futuro.

Michele, si è appena inaugurata la 36ª Biennale di San Paolo, con un titolo programmatico – Nem Todo Viandante Anda Estradas / Non tutti i viaggiatori percorrono strade – che invita a ripensare l’umanità come pratica, come verbo. Tu presenti The Nest of the Eternal Present, un’opera che sembra farsi carico in modo esemplare di questo orizzonte. Partiamo da qui: che cosa significa per te “umanità come pratica” e come hai cercato di tradurla nel tuo nido-archetipo?

Partecipo a questa 36ma Biennale di São Paulo con l’esperienza e la memoria degli altri episodi che la hanno preceduta e che sono necessari a spiegare compiutamente la linea a cui anche questa nuova opera si ricollega: penso tra le altre all’opera Terra Madre della 6a Biennale di Mardin, al ciclo The Density of The Transparent Wind con le tre opere presentate a Documenta 14, al Man di Nuoro, al Musée de Rochechouart o ancora Atlantropa della mostra “Nel Mezzo del Mezzo” a Palermo. Premetto innanzitutto che il titolo scelto dal curatore Bonaventure Soh Bejeng Ndikung e dal suo team (Keyna Eleison, Alya Sebti, Anna Roberta Goetz e Thiago de Paula Souza e Henriette Gallus) per questa mostra trae ispirazione da due poesie: la prima, Da calma e do silêncio, del gigante della letteratura e del pensiero contemporaneo brasiliano, globalmente influente, Conceição Evaristo e da quella del più grande poeta haïtiano René Depestre dal titolo Une Conscience en Fleur pour Autrui. Questa precisazione mi sembra importante, avendo condiviso pienamente il senso di questo progetto che, attraverso l’arte e la poesia, propone una nuova dimensione per l’umanità. La crisi dei valori che affligge il mondo contemporaneo sembra senza rimedio e sta creando un sentimento di smarrimento collettivo e globale che chiede risposte illuminanti tanto per gli uomini quanto per la natura. Una, certamente fondamentale e irrinunciabile si chiama “armonia”, parola che include anche il sentimento della gioia e il senso della bellezza. Questa risposta ha un valore politico che viene sottovalutato dalla civiltà contemporanea e come artista sento il dovere imprescindibile di affermarlo attraverso ogni mio pensiero e tramite ogni mia opera, sottolineandone l’importanza e l’urgenza per poter instaurare nuovi spazi di pluralità e coesistenza tra i generi che convivono sul pianeta.

Il grande nido che ho realizzato e messo al centro dello spazio espositivo vuole esprimere attraverso la sua forma e i materiali naturali di cui è composto un senso di armonia archetipale, proponendosi al contempo come una sorta di mandala ma anche agorà, un luogo di interconnessione orizzontale e verticale dell’umanità, uno spazio di ascolto e compensazione di storie anche conflittuali che offre al visitatore le sensazioni di accoglienza e protezione. La forma perfettamente circolare del nido e la disposizione degli uccelli-totem, collocati intorno ad un settore della circonferenza, invitano il pubblico ad accedere nello spazio interagendo con esso e contribuendo così alla realizzazione del senso dell’opera.

Nel cuore della tua installazione c’è il nido, che Bachelard descriveva come archetipo di protezione e di ritorno, e che tu trasformi in dispositivo scultoreo e sonoro. In che modo questo nido diventa, per te, non solo immagine di memoria e radice, ma anche figura di comunità, organismo circolare e non gerarchico?

Come spiegavo prima, il nido ha proprio la funzione che tu evochi, centrale nel significato di questa mia opera e funzionale alle sensazioni che vuole generare nel pubblico. Realizzato con terra del Parco di Ibirapuera, in cui sorge il padiglione Ciccillo Matarazzo progettato da Oscar Niemeyer (uno dei più grandi architetti brasiliani e mondiali, scomparso nel 2012, ndr) e che ospita la Biennale, ha al centro un soffice letto di paglia che accoglie tre grandi uova e centinaia di piume di uccello. Gaston Bachelard nel suo saggio fondamentale La poetica dello spazio designava il nido come luogo di abitazione ideale, simbolo di protezione per eccellenza, capace di stimolare l’immaginazione poetica; lo collegava inoltre al concetto di “ritorno”. Sposando il pensiero del filosofo francese, questo nido rappresenta un archetipo di protezione e sicurezza, come dicevo prima, qualcosa a cui continuamente ritorniamo di fronte alla sofferenza umana. Allo stesso tempo, esso è il luogo vitale per la vita di alcune specie animali, come gli uccelli. Simbolicamente, quindi, esso lega l’essere umano agli animali e al loro ambiente naturale.

La scoperta dei nidi fossili di Titanosauri in Brasile, che tu evochi nel progetto, sembra legare il tempo geologico a quello umano. Quanto pensi che il tuo lavoro mostri che queste temporalità – dell’uomo, della natura, delle specie estinte – non procedano parallele, ma si depositino continuamente l’una nell’altra?

Nel marzo 2022, la rivista Nature ha riportato la notizia della straordinaria scoperta dei primi nidi di Titanosauro, risalenti al Cretaceo superiore, a relativamente breve distanza da São Paulo, nel distretto di Ponte Alta, stato di Minas Gerais, in un sito posto al confine settentrionale del bacino di Bauru. Questi nidi contenevano 20 uova fossili, appartenenti a una specie scomparsa circa 65 milioni di anni fa. La conoscenza di questo evento, destinato a modificare il sapere fin qui acquisito sulla storia dell’evoluzione, mi è servita da pretesto per introdurre nell’opera il concetto di tempo che è centrale nella mia ricerca, attraverso la costante messa in relazione dell’origine con il presente. Trovo questo rapporto fondamentale soprattutto oggi allorché la scienza e la tecnologia stanno acclarando la sequenza delle fasi evolutive ab origine proprio mentre l’uomo si sta interrogando sul rischio della propria estinzione. Quest’ultima eventualità, che costituirebbe un episodio fondamentalmente normale nel ciclo della natura, sta tuttavia procedendo contestualmente, in modo tanto rapido quanto innaturale, alla irreversibile distruzione di biodiversità per azione antropica. Mi sembra quindi evidente l’indissolubilità dei generi tanto nella loro evoluzione quanto nelle loro vicende presenti e direi in parte nei destini futuri. Attraverso altre opere, come l’installazione The Inner State presentata in due mostre personali – quella del Museo Marino Marini a Firenze nel 2020 e la retrospettiva al Musée de Rochechouart  nel 2021–, avevo già parlato della dissoluzione della dimensione umana nel più vasto complesso naturale partendo dalla teoria del multinaturalismo di Eduardo Viveiros de Castro, a proposito della cosmogonia amerinda, riferendomi alla filosofia di vita delle popolazioni amazzoniche che credono nell’esistenza di una continuità psichica tra esseri umani, animali e mondo vegetale. Allo spunto offerto dalla scoperta presentata dalla rivista britannica, in quest’opera ho associato inoltre il concetto di mito, secondo il senso proposto da Lévi-Strauss: “che cos’è un mito?… Se chiedete ad un nativo americano con molta probabilità risponderebbe: una storia del tempo in cui gli uomini e gli animali non erano ancora distinti“.  

Il nido che presenti non è un oggetto statico, ma un “palinsesto vivente”: terra cruda, uova di cartapesta, totem con teste d’uccello, suoni che lo avvolgono. Come questa stratificazione di materiali e linguaggi risuona con la stratificazione più ampia che da sempre governa la tua ricerca – dal fossile al rito, dalla pietra al segno?

Il mio lavoro è sempre stato caratterizzato dall’uso promiscuo di tecniche e materiali, quasi una cifra stilistica anche se non mi piace l’idea di stile legata all’arte. Tutti i materiali utilizzati per quest’opera sono di origine organica, ad impatto neutro e sono stati assemblati sul posto. Tengo molto a questo dato perché lo ritengo coerente con la storia della mia pratica artistica e con i miei principi oltreché aderente al proposito curatoriale della mostra. L’unica componente che è stata prodotta altrove è quella sonora, immateriale, che collega polisensorialmente tutti gli elementi di The Nest of the Eternal Present. Certamente la scelta dei materiali è stata funzionale alla costruzione dell’opera per stratificazioni così come nel caso di tante mie altre opere. Lo è la terra cruda certamente, applicata manualmente e per strati per la realizzazione dei totem: qui ho scelto di utilizzare una tecnica locale, il pau a pique che prevede il riempimento di un’ossatura lignea con un impasto di terra, argilla e paglia. Lo è anche l’uso di papier-mâché per la realizzazione delle grandi teste di uccelli, poste in cima ai totem, e delle grandi uova, poggiate all’interno del nido su vari strati di paglia e materiali organici. Nel mio lavoro la stratificazione ha un valore metaforico essenziale; essa rappresenta il tempo, la geologia, la storia, la cultura, la vita e potrei continuare a lungo, visto che la considero la chiave per analizzare il presente in tutti i suoi aspetti.

Nel poema di Attar La conferenza degli uccelli, a cui tu fai direttamente riferimento, la rivelazione del Simurgh come immagine riflessa dei viaggiatori stessi contiene una lezione radicale di autoconoscenza collettiva. Nel tuo lavoro, come si traduce questa metafora? Siamo noi gli uccelli che custodiscono le uova, o sono forse le uova stesse a custodire noi, come memoria vivente e promessa di futuro? O che altra lezione dobbiamo trarne nel nostro tempo presente?

Gli uccelli siamo noi, esponenti di una società totemica, obbligati a risollevarci dalla rovina di cui siamo responsabili, attraverso la rigenerazione dei valori umanistici fondamentali. Le uova poste al centro dell’opera, portano la promessa di nuova vita, esse sono simbolo di creazione, rinascita e trasformazione e racchiudono l’infinita memoria. Sta a noi agire cogliendo il messaggio universale contenuto nelle uova, condizione imprescindibile per percorrere la strada verso il futuro, proprio come avviene ne La conferenza degli uccelli (titolo originale Mantiq al-Tayr), con cui il poeta persiano Farid al-Din Attar racconta del viaggio fantastico di una moltitudine di uccelli che, afflitti dalla disperazione che opprime il mondo, si avventurarono in un lungo e misterioso tragitto alla ricerca del loro Re, il Simurgh, unico detentore della formula per riportare la felicità e mettere fine al caos. Dopo aver attraversato le sette valli, tappe di un rischioso itinerario esoterico, i trenta volatili sopravvissuti raggiunsero la loro mèta finendo per specchiarsi, ognuno di loro, nella luce accecante della Fenice, loro Re e scoprire di essere tornati al punto di partenza. Questo poema è una metafora della nostra condizione, di ciò che siamo e del nostro percorso. Per rispondere alla crisi del mondo contemporaneo non dobbiamo inventare nulla ma semplicemente riscoprire noi stessi e i nostri valori più alti.

La componente sonora – i canti di trenta uccelli, cifra che coincide con il nome del Simurgh della mistica persiana – introduce un’esperienza acustica che trasforma la scultura in organismo vibrante. L’ascolto, evocato da Attali come pratica politica fondamentale, diventa qui cardine della tua opera, traducendosi in canto e musica sottile, proveniente direttamente dalla natura: quanto pensi che oggi, di fronte all’iperproduzione visiva, sia proprio l’atto dell’ascolto – e dell’ascolto della natura in particolare – a costituire la vera rivoluzione percettiva per il nostro futuro?

Quasi tutte le mie opere installative hanno una dimensione sonora che considero indissolubile da quella materiale e visiva. In quest’opera il canto registrato di trenta uccelli è stato rielaborato elettronicamente, con un grande musicista e dj come Andrea Blanco, per la creazione di un ambiente sonoro che inonda e avvolge la componente scultorea dell’opera. Questo aspetto risponde ad uno dei temi centrali della biennale discendente dal pensiero di Jacques Attali, che nel suo saggio fondamentale Noise: The Political Economy of Music ha affermato che per venticinque secoli la conoscenza occidentale ha cercato di guardare il mondo, commettendo un errore fondamentale: il mondo non va osservato ma ascoltato, adottando lo stesso metodo per la natura, per le piante, per gli animali e per l’uomo. Del pensiero di Attali condivido innanzitutto la tesi che correla l’incapacità di ascoltare alla disumanizzazione, alla distruzione degli ecosistemi e all’espropriazione dei territori. La nostra quotidianità è costantemente investita da una infinità di immagini che rappresentano lo strato più superficiale e spesso superfluo della nostra umanità. Il messaggio di Attali è tanto chiaro quanto necessario. Penso che ridare un senso alla nostra capacità di ascoltare abbia una portata rivoluzionaria, fondamentale per rifondare una sensibilità collettiva e vivere secondo principi di gioia e bellezza.

Nei tuoi lavori la dimensione arcaica (i menhir, le pietre, le uova, i fossili) convive con quella tecnologica (l’elaborazione elettronica dei suoni, la dimensione installativa): non come due poli inconciliabili, ma come tensioni che si intersecano. Come pensi questa relazione tra il tempo lento della natura e il tempo accelerato della tecnica?

Considero la tecnologia un mezzo fondamentale per vivere nel mondo contemporaneo a patto che il suo utilizzo sia allineato a valori etici tanto umani quanto sociali e naturali. Le conquiste tecnologiche conseguite dall’uomo nel corso della storia sono sempre state funzionali allo sviluppo e all’evoluzione dell’individuo e della collettività, contribuendo al miglioramento complessivo della vita. Dei profondi interrogativi sorgono tuttavia per la tecnologia più recente e mi riferisco naturalmente all’IA. L’urgenza di un dialogo etico tra produttori-somministratori e fruitori per conseguire positivi risultati per la società, soprattutto in termini di uguaglianza, e per la tutela e recupero dell’ambiente, si impone se si vogliono correggere le drammatiche asimmetrie del mondo di oggi. Fatta questa premessa, nel mio lavoro convivono la dimensione arcaica e materica con quella tecnologica senza che l’una sovrasti l’altra. Amalgamare queste due componenti mi diverte particolarmente e mi fa pensare a come si possano conciliare le esigenze della tecnica con quelle della natura. La risposta a questa domanda dipenderà molto dall’esito del dialogo etico a cui l’uomo non potrà sottrarsi a lungo. Credo molto nella spinta che le generazioni più giovani possono imprimere per avviare processi virtuosi e correttivi della realtà, posto che la mia generazione ha irresponsabilmente peccato di inerzia.  

Più volte hai evocato, nel tuo percorso, la necessità di un “neo-umanesimo”. A partire da The Nest of the Eternal Present, che propone l’unità della vita attraverso tutte le epoche e tutte le specie, come è possibile parlare di umanesimo oggi senza ricadere in un nuovo antropocentrismo?

Non credo serva un neo-umanesimo, piuttosto credo che sia fondamentare rilanciare, rivisitare ridefinendolo quello che viviamo. The Nest of the Eternal Present porta con sé la proposta della riscoperta di valori, che occorre riaffermare attraverso un salto antropologico ed epistemologico. La crisi ecologica planetaria si manifesta quotidianamente con disastri che sono sotto gli occhi di chiunque, anche di coloro che per ragioni egoistiche o bieche negano l’evidenza della realtà. Il superamento delle inquietudini sul futuro passa attraverso la rigenerazione di un equilibrio complessivo dell’eco-sistema, retrocedendo dalle posizioni di dominio che hanno portato l’umanità alla sconfitta. È proprio di sconfitta dell’uomo che bisogna parlare, per comprendere che non abbiamo scelta nella direzione da scegliere al bivio che ci sta di fronte. Porsi in silenzio davanti alla natura, riscoprire la bellezza e la gioia, vivere la quotidianità attraverso la poesia sono le strade che possono portarci ad un umanesimo umano fatto anche di rinunce. Continuare a perseguire la divinizzazione dell’umano nel padroneggiare la natura equivarrebbe alla definitiva rinuncia al futuro.

I quattro totem con teste d’uccello che circondano il nido hanno la funzione di guardiani, ma anche di testimoni. Come li immagini: figure di un’antica ritualità, icone di una spiritualità che vigila, o presenze che incarnano il fragile equilibrio tra vita, coscienza ed ecosistema?

Dicevo prima che i quattro totem rappresentano il mondo vivente che ci include. La fragilità delle grandi teste d’uccello trova conforto nella forza ancestrale dei totem. In tre di loro gli occhi sono attentamente puntati verso le grandi uova che racchiudono la nuova vita e la soluzione al caos, mentre il quarto alza la testa al cielo.

In un’epoca segnata da crisi climatiche e da un’idea sempre più fragile di futuro, quanto credi che simboli universali come il nido, l’uovo o il canto degli uccelli possano costituire un linguaggio capace di generare legami, memorie, cortocircuiti, di tenere insieme comunità diverse e di offrire nuove forme di resistenza e di speranza?

Con un certo ritardo, il mondo sembra dare segnali di risveglio da un torpore secolare attribuibile in larga parte all’esuberanza e all’arroganza dell’Occidente. Nuove energie si propongono per invertire il corso della storia, incontrando ovviamente resistenze che mostreranno tutta la propria antistorica debolezza naufragando. Ci vorrà del tempo. Ma per non cadere in errori ancora peggiori rispetto a quelli che il passato ha mostrato, sopra ampiamente discussi, occorrerà ascoltare l’esperienza di tutti riunendo in una vera comunità globale ogni diversità. Parlavo prima della teoria del multinaturalismo di Viveiros de Castro e dell’esempio che potremmo trarre dalle popolazioni amazzoniche nel riconciliare l’uomo con la natura. Sono convinto che l’arte rappresenti un esempio di linguaggio planetario capace di suggerire soluzioni e offrire speranza, generando spazi di dialogo e riflessione utili a nutrire positivamente il futuro con una linfa diversa fondata su simboli e valori universali come quelli che ho immaginato per l’installazione di São Paulo.   

Michele Ciacciofera, L’Altare del Tempo e dell’Acqua Feconda, Fanano, Foto Roberto Leoni

Anche nell’installazione ambientale che hai allestito a Fanano, L’Altare del Tempo e dell’Acqua Feconda, sei partito dall’acqua e dalla pietra come due elementi fondativi. Cosa ti interessava esplorare in quel dialogo tra flusso e permanenza, tra erosione e memoria?

I primi passi del progetto per l’opera di Fanano sono stati legati al “respirare” e “ascoltare” la natura di questo luogo mistico posto sull’appennino tosco-emiliano, nella provincia di Modena. Nella scelta del sito, in un territorio articolato e variegato in cui la natura vive rigogliosa, sono stato quasi attirato dal suono dell’acqua che scorre e s’infrange sulle pietre del torrente Leo, dal vento che, incanalandosi in una insenatura quasi incontaminata che da Fanano conduce ai paesi della valle attraverso un sentiero, muove degli alberi secolari e una vegetazione vibrante e ricca.  Qui una grande quantità di rocce staccatesi dalle pareti delle montagne, trascinate e levigate dal flusso impetuoso dall’acqua, giacciono naturalmente con la loro bellezza struggente sembrando pagine del libro del tempo cosmico. L’acqua trasparente, fresca, rapida nel suo scivolare brilla mostrando tutta la sua preziosità. In questa descrizione racchiudo già il senso dell’opera che nasce quasi “spontaneamente” in questa natura, inserendosi silenziosamente nel contesto storico e antropologico locale, costruitosi sul rapporto tra uomo e natura; un esempio di compiuta armonia, circostanza questa molto rara in un mondo che, come dicevo prima, patisce il rapporto di dominazione sconsiderata esercitato dal primo sulla seconda.

L’opera di Fanano non appare come un oggetto imposto, ma come un organismo fragile, in equilibrio, destinato a mutare col tempo. È un modo per restituire alla natura la sua parte di autorialità?

Considero l’Altare del Tempo e dell’Acqua Feconda realizzato a Fanano un progetto collaborativo svolto grazie a e con la natura (oltre che, naturalmente, grazie alla fondamentale collaborazione di Bianca Cerrina Feroni che ha curato il progetto, e dei miei tre assistenti, Michele Tordiglione, Samuel Dumas e Matteo Boldrini, che ringrazio tutti sentitamente). Scegliere e prelevare i monoliti disseminati nel sito di insediamento dell’opera, per realizzare i menhir e la platea della scultura, è stato un po’ come riordinare una stanza per prepararla ad accogliere una grande festa. Scolpire e sovrapporre i blocchi prescelti, erigerli su un grande podio litico, anch’esso scolpito, è stata una esperienza straordinaria che ha dato vita ad un grande altare laico simbolo di una natura fiera e possente che dialoga con la comunità offrendo un messaggio politico di spiritualità e armonia. L’opera vivrà nel tempo e certamente per azione della vegetazione in cui è inserita muterà. Muschi, licheni e la vegetazione, circondando e colonizzando la scultura provvederanno a rinnovare la magia della sua creazione, affermando la sua appartenenza ad un ecosistema paritario condiviso con l’uomo.

Michele Ciacciofera, L’Altare del Tempo e dell’Acqua Feconda, Fanano, Foto Roberto Leoni

Gli otto monoliti allineati dell’Altare, cifra dell’infinito, evocano tanto i menhir quanto le forme rituali delle comunità antiche. Come hai pensato questa geometria: come dispositivo di memoria, come invocazione di futuro, o come entrambe le cose?

Innanzitutto il numero otto che rappresenta il lemniscata e simbolicamente l’infinito. Tanti sono i cairn che compongono verticalmente la scultura, cosi come le coppelle circolari scolpite nel basamento dell’opera. Le opere verticali rievocano la scultura arcaica, i menhir appunto, al cui studio ho dedicato grande attenzione creando vari cicli di opere in vetro, in ceramica, in materiali riciclati etc. Essi si proiettano verso il cielo e sembrano invocare l’infinito, una devozione al cosmo, la tensione verso valori soprannaturali, dunque, rispondendo alla tua domanda, essi rappresentano certamente entrambi le cose, lette attraverso il prisma del presente. Accostarsi oggi a uno di questi monumenti per condividerne l’energia spirituale richiede silenzio, necessario ad ascoltare il messaggio del tempo, di una memoria granitica che spiega il tutto. Oggi nessuno di noi può fare a meno di questa narrazione se vuole dare un futuro al mondo.

In Fanano, come a San Paolo, emerge l’idea di un “altare laico”: un luogo sacro ma senza dogma, aperto alla natura e alla comunità. Come pensi questo rapporto tra elementi arcaici e contemporaneità?

Oggi un altare non può che essere laico, spiritualmente laico, aperto a tutti e trascendente da ogni appartenenza che non sia quella alla natura, includendo in essa la comunità umana. In tal senso il concetto dell’altare cosi come quello del nido risuonano nell’intuizione dell’appuntamento segreto stabilito tra l’arcaico e il moderno, condiviso da Pasolini e Agamben. Vorrei in proposito citare una fondamentale affermazione di quest’ultimo a proposito dell’essere “contemporaneo” che spiega come le due dimensioni siano profondamente compenetrate: “contemporaneo non è soltanto colui che, percependo il buio del presente, ne afferra l’inevitabile luce; è anche colui che, dividendo e interpolando il tempo, è in grado di trasformarlo e di metterlo in relazione con gli altri tempi, di leggerne in modo inedito la storia”. Il rapporto tra arcaico e contemporaneo pervade profondamente il senso della mia ricerca e di tanti miei lavori, non solo i due di cui stiamo parlando in questa intervista; penso ad esempio a quelli ispirati alle teorie di Jung e Pauli sulla sincronicità o anche quelli che si basavano sulla relazione tra archeologia e narrazione orale per la costruzione di una mitologia popolare giunta fino a noi. 

Michele Ciacciofera, L’Altare del Tempo e dell’Acqua Feconda, Fanano, Foto Roberto Leoni

Nel lavoro di Fanano l’acqua diventa metafora di democrazia planetaria, a partire dalla frase di Mandela: “l’acqua è democrazia”. Come colleghi questa dimensione civile e politica con quella più spirituale ed ecologica che attraversa la tua opera?

La dimensione politica è compenetrata all’arte e alla poesia. Credo di averlo già convintamente detto prima quando parlavo della laicità spirituale de L’altare del Tempo e dell’Acqua Feconda, sottintendendolo evidentemente anche nel precedente discorso riguardante The Nest of the Eternal Present. Uno dei concetti portanti dell’altare è legato all’importanza dell’acqua come elemento naturale, archetipico, civile e etico, direttamente collegato al concetto di Democrazia planetaria, atteso che il diritto ad essa non è garantito a tutti in modo uguale. L’utilizzo dell’acqua rischia di diventare sempre più oggetto di dominazione, ingiustizia, sopraffazione e violenza e costituisce uno dei grandi punti interrogativi per il futuro del pianeta.  Uno dei grandi padri della democrazia contemporanea come Nelson Mandela affermava che “l’acqua è un diritto di base per tutti gli esseri umani: senza acqua non c’è futuro. L’accesso all’acqua è un obiettivo comune. Esso è un elemento centrale nel tessuto sociale, economico e politico del paese, del continente, del mondo. L’acqua è democrazia”. Quest’opera rivolge cosi un invito ideale alla comunità planetaria a guardare all’esempio del microcosmo rappresentato dalla comunità di Fanano per la difesa di una democrazia compiuta e responsabile che veda nella protezione della natura il presupposto fondamentale per la vita.

Più volte ti sei definito “partigiano della natura”. Penso inevitabilmente a Joseph Beuys e alla sua Difesa della natura, sviluppata a Bolognano, anch’essa in un contesto periferico e non metropolitano. Cosa significa, per te oggi, essere un artista militante in un tempo di emergenza climatica e di crisi ecologica?

Le emergenze credo facciano parte della vita, del nostro mondo, esse contribuiscono a renderci umani. È però la nostra sensibilità, il nostro senso di responsabilità che hanno bisogno continuamente di essere sollecitati affinché siano pronti a reagire ma soprattutto ad agire. Il linguaggio dell’arte è fondamentale a questo scopo e non può che rivolgersi a tutti per contribuire a costruire un movimento militante per il pianeta, a patto che miri sempre all’oggettività senza scadere nella predica. Il pianeta è la realtà fondamentale che ci permette di esistere e per cui dobbiamo essere presenti, in questo momento storico più che in ogni altro, dunque l’arte in quest’azione non deve mai retrocedere dal proprio compito che è necessariamente militante. Nessun rinvio è ammesso, trattandosi di un lavoro essenziale da svolgere in tempo reale. Amo molto il lavoro di Beuys che continua ad essere di eccezionale attualità e forza comunicativa. Nel mio lavoro ho quasi sempre privilegiato la periferia al centro, mettendo d’altronde al centro della mia riflessione il concetto di microcosmo, tanto sociale quanto naturale. Lo svolgimento di questo compito, da artista, è vincolante e necessario per la mia dignità.

Michele Ciacciofera, L’Altare del Tempo e dell’Acqua Feconda, Fanano, Foto Roberto Leoni

Guardando insieme San Paolo e Fanano, viene da pensare a un unico grande racconto: pietre, uova, nidi, acqua, suono, fossili, comunità. Ti riconosci in questa idea di un’opera-mondo, di un percorso che non si chiude mai e che continua a ramificarsi come un rizoma?

Mi è sempre piaciuto nella creazione di un’opera includere tracce, anche solo concettuali, di quelle che l’hanno preceduta. Chinua Achebe in una intervista di qualche decennio fa disse che la narrazione ci rende umani, che ad essa ci rivolgiamo tutte le volte che abbiamo dubbi su chi siamo, che è nella storia che riconosciamo di fare parte di una collettività riconoscendo che la nostra umanità è subordinata a quella del nostro vicino. Non posso considerare altrimenti il mio lavoro, metaforicamente come un albero in cui le opere di São Paulo e di Fanano sono gli ultimi rami nati da uno stesso tronco.


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  1. La più grande magia nell’arte di Michele è che riesce a toccare le corde più profonde del nostro essere umani, ormai assopite da tempo, e a farle vibrare nuovamente in un’ unica armonia. In questo bellissimo incontro con l’autore viene messo in risalto tutto ciò.

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