C’è stata una stagione – tra la fine degli anni Novanta e l’inizio dei Duemila – in cui un gruppo di artisti italiani ha ricominciato a sporcarsi le mani con la pittura e con la scultura. Senza dichiarazioni solenni, senza bisogno di rivendicare un ritorno all’ordine. Semplicemente, lo hanno fatto. Con naturalezza, ironia, lucidità.
A questa stagione guarda oggi “Milano-Düsseldorf 865”, mostra ospitata negli spazi off degli atelier ES365, in occasione della Art Week della città tedesca. Curata da Alberto Mattia Martini e Giuseppe Donnaloia, riunisce undici artisti italiani nati tra la fine degli anni Cinquanta e i primi Settanta: da Marco Cingolani ad Alessandro Papetti, da Giovanni Frangi a Daniele Galliano, fino a Fulvio Di Piazza, Francesco Lauretta, Luciano Massari, Fabio Sciortino, Alex Pinna, Massimo Kaufmann.

Il titolo richiama la distanza tra le due città – 865 chilometri – ma è anche un modo per segnare un passaggio, un asse culturale che proietta la scena artistica italiana su uno scenario europeo. E una generazione che ha saputo, forse senza farci troppo caso, ridare centralità a linguaggi che sembravano ormai messi da parte.
Pittura e scultura, appunto. Praticate in modi diversi, con stili e attitudini differenti, ma sempre con la stessa libertà. Non più come strumenti da difendere contro il contemporaneo, ma come forme elastiche, vive, capaci di assorbire la cronaca, il quotidiano, il paesaggio, l’identità. Senza la paura di sembrare “tradizionali” e senza il vezzo di voler sempre stupire.

Questi artisti non si sono limitati a sperimentare i temi classici dell’ibridazione postmoderna, benché questa fosse parte integrante del loro DNA. Hanno costruito percorsi solidi, riconoscibili, dove la memoria non è mai nostalgia e la tecnica non è mai fine a sé stessa. Hanno dimostrato che si può fare pittura oggi senza guardare indietro con rimpianto e senza inchinarsi ai linguaggi dominanti.

“Milano-Düsseldorf 865” è allora, più che una collettiva, una piccola dichiarazione di intenti. Un modo per ribadire che la pittura e la scultura italiane continuano a essere un laboratorio fertile, un luogo di sperimentazione silenziosa ma tenace. Dove ogni opera è un gesto che connette passato e futuro, senza finzioni e senza pose. In un tempo in cui tutto tende a uniformarsi, questa mostra restituisce una varietà di sguardi che non si assomigliano, ma che sanno stare insieme. E forse, proprio per questo, possono ancora sorprenderci.