Il Monet di Lapo a rischio confisca: nuovi capitoli nel giallo dei quadri Agnelli

Non è più soltanto un giallo familiare, ma un enigma che riguarda il rapporto tra collezionismo privato e responsabilità pubblica. L’affaire dei tredici quadri mancanti dalla collezione Agnelli — con il Monet Glaçons, effet blanc in prima fila — si muove ormai su un doppio registro: da un lato le indagini della Procura di Roma, dall’altro il dibattito mediatico e culturale su cosa significhi perdere pezzi così centrali della nostra memoria visiva.

Tutto comincia nel gennaio 2003 con la morte dell’Avvocato Gianni Agnelli, figura simbolica dell’Italia del Novecento e collezionista raffinato. La sua raccolta di dipinti, sculture e arredi non era soltanto un patrimonio familiare, ma anche un riflesso dell’identità culturale del Paese. Per anni quelle opere hanno abitato le residenze di famiglia — Villa Frescot a Torino, Villar Perosa, l’appartamento romano — senza apparire nei grandi musei o nelle aste internazionali. Poi, col passare del tempo, la collezione si è trasformata in un campo di battaglia: la figlia Margherita da un lato, i nipoti John, Lapo e Ginevra Elkann dall’altro.

Le prime crepe diventano visibili nel 2019, con la scomparsa di Marella Caracciolo, vedova dell’Avvocato. È allora che Margherita denuncia “ammanco di beni di ingentissimo valore”. La questione ereditaria, che già aveva visto contrapporsi madre e figli, si intreccia con la sorte di opere che appartengono alla storia dell’arte. Già nel 2023 la trasmissione Report di Rai 3 aveva gettato luce su una lista riservata di oltre 600 opere, segnalando in particolare il caso del Monet Glaçons, effet blanc, di cui non risultava alcuna licenza di esportazione. Una tela che, secondo un inventario del 20 ottobre 2003, si trovava a Villa Frescot, e che nel 2013 veniva battuta da Sotheby’s a New York per circa 16 milioni di dollari.

Il sospetto, nelle ultime settimane, si è trasformato in inchiesta. A settembre 2025 la Procura di Roma ha aperto un fascicolo sui tredici quadri mancanti, ipotizzando i reati di esportazione illecita di beni culturali e ricettazione. Come ha riportato SkyTG24, l’indagine si concentra su tre tele in particolare — Monet, Balla, De Chirico — di cui nel caveau del Lingotto non sono stati trovati gli originali, ma delle copie realizzate dopo il 2008. È qui che il mistero prende forma: chi ha commissionato quelle repliche? Perché sostituire tre capolavori con imitazioni? E soprattutto, dove sono finiti gli originali?

Lo scorso 2 ottobre 2025 il Corriere Roma ha aggiunto un tassello fondamentale. Secondo il quotidiano, un domestico ha dichiarato che già nel 2008 due opere erano state sostituite nell’appartamento romano: al posto del Balla originale, una copia “di qualità inferiore”. Lo stesso articolo anticipa che la Procura sentirà le segretarie storiche di Marella, Tiziana Russi e Paola Montalto, considerate testimoni cruciali per ricostruire gli spostamenti delle opere negli anni della malattia della vedova. Parallelamente, si è rafforzata la pista internazionale. Economy Magazine ha raccontato come le rogatorie abbiano passato al setaccio i porti franchi di Ginevra e Chiasso, senza esiti concreti. Nonostante anni di indagini, nessuna traccia dei tredici quadri. Il sospetto è che siano transitati in luoghi di custodia riservata, difficili da penetrare anche per la cooperazione giudiziaria.

Il cuore resta sempre il Monet. Ci sono infatti tre versioni in circolazione: una copia al Lingotto, un dipinto custodito in Svizzera e l’originale di cui si perde la traccia. Le email sequestrate agli uffici Elkann parlano esplicitamente di “sostituzione con copia” e di assenza di titoli di importazione temporanea, segno di una gestione consapevole e non accidentale. In parallelo, TorinoCronaca ha rilanciato l’ipotesi di un sequestro imminente del Monet attribuito a Lapo Elkann, valutato 15 milioni di euro e potenzialmente soggetto a confisca.

Il quadro economico ricostruito sarebbe il seguente: 2 milioni di euro per il Balla, 4 per il Monet, 7 per il De Chirico. Valori assicurativi che, letti oggi, assumono un peso investigativo enorme. Perché definiscono non solo il danno patrimoniale, ma anche la rilevanza penale di un’esportazione senza titolo.

Gli Elkann, dal canto loro, ribadiscono una posizione lineare: quelle opere sarebbero state donazioni di Marella Caracciolo ai nipoti prima del 2019, dunque fuori dall’asse ereditario di Gianni Agnelli. Una difesa che regge sul piano civile, ma che non scioglie il nodo penale. Il Codice dei beni culturali, infatti, punisce l’uscita dall’Italia di opere con più di 70 anni senza autorizzazione, indipendentemente dalla titolarità. In parallelo, il fronte fiscale-successorio si è chiuso a Torino: a settembre 2025 il Tribunale ha concesso la messa alla prova a John Elkann e ha archiviato la posizione di Lapo e Ginevra dopo il versamento complessivo di 183 milioni di euro. Ma questo filone resta distinto dal dossier romano, che guarda non alle tasse, bensì al destino fisico dei quadri.

Secondo la ricostruzione di SkyTG24, il Nucleo Tutela Patrimonio Artistico ha annotato che le opere erano originariamente collocate nelle residenze torinesi e romane, prima di “disperdersi”. La presenza di copie al Lingotto, confermata anche da perizie, segna il confine fra passato e presente: da un lato la memoria di capolavori appesi alle pareti di Villa Frescot, dall’altro un caveau che custodisce repliche prive di valore artistico. È qui che il commento prende corpo, perché non è soltanto una vicenda giudiziaria o un conflitto familiare. È un sintomo di fragilità sistemica: controlli inefficaci, archivi incompleti, copie al posto di originali, opere che scompaiono nei porti franchi. Ogni nuova rivelazione, che sia una mail interna o un valore assicurativo, diventa il segnale di un cortocircuito tra patrimonio privato e tutela pubblica.

In fondo, il caso Agnelli è il paradigma di un Paese che produce bellezza e simboli, ma che fatica a garantirne la permanenza sul proprio territorio. Ogni copia ritrovata in un caveau non è soltanto un indizio investigativo: è un monito sulla debolezza delle istituzioni di fronte a patrimoni tanto grandi quanto opachi.

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